C'era una volta che i mafiosi nessuno li cercava. Poi si cominciò a catturarne
qualcuno, ma non sempre restavano in carcere. Robusti killer allenati alla
ferocia, spietati torturatori e compiaciuti esecutori di efferate sentenze di
morte, di colpo diventavano fragili omiciattoli, cagionevoli di salute,
afflitti da mali d'ogni tipo che li rendevano incompatibili col carcere. Quei
pochi che in carcere ci rimanevano, vivevano ben diversamente dai detenuti
comuni. Per loro, la prigione era un grand hotel...
Tanto che la storia della mafia è stata - per certi versi - anche storia del
potere mafioso "nonostante" il carcere e persino "dentro" il carcere. Il
detenuto mafioso , abituato a dettar legge ovunque, per decenni è riuscito a
trasformare anche il carcere in una porzione del territorio nel quale esplicare
il suo dominio, una dépendance della borgata dove spadroneggiava prima della
cattura. Un paradossale rovesciamento dei rapporti di forza, dove la parte
debole - invece del detenuto - era lo Stato. E il fatto che il mafioso detenuto
potesse mantenere intatto il suo potere, nonostante la carcerazione, costituiva
un'esibizione di forza che ne accresceva l'autorevolezza, rafforzava il mito
dell'impunità mafiosa, vanificava quelle iniziative di contrasto dell'organizzazione
mafiosa che una minoranza di uomini onesti cercava di portare avanti.
Giovanni Falcone, che ben conosceva questa vergognosa situazione di favore per
criminali che avrebbero dovuto essere fronteggiati senza sconti, quando (di
fatto cacciato da Palermo) cominciò a lavorare a Roma al ministero della
Giustizia, mise in cantiere - tra l'altro - la normativa sui "pentiti" e
l'adozione di nuove norme per i mafiosi detenuti allo scopo di realizzare un
trattamento differenziato, modulato sulle specifiche e concrete esigenze di
quel tipo di reclusi, senza per altro indulgere ad istanze di tipo meramente
vendicativo-retributivo. Mentre Falcone metteva a punto questo progetto, la
Cassazione (forte di una presidenza diversa rispetto al passato) confermava le
condanne del "maxiprocesso". Per la prima volta, pesanti pene definitive da
scontare in un carcere di giusto rigore. Per i mafiosi, una vera rovina,
insopportabile. La strage di Capaci nasce anche di qui: una vendetta postuma
contro Falcone e al tempo stesso il tentativo di soffocare nel sangue le
riforme progettate. Riforme che di fatto saranno approvate soltanto dopo la
strage di via d'Amelio, soltanto dopo che all'assassinio di Falcone seguì
quello di Paolo Borsellino. Per cui quella sui "pentiti" e l'art. 41 bis
dell'ordinamento giudiziario (parentesi: ancora una volta la dimostrazione che
la legislazione antimafia è piena zeppa di bis, ter, quater, quinquies...: una
legislazione sempre soltanto del "giorno dopo") sono norme letteralmente
fecondate dall'intelligenza e intrise del sangue di Falcone e Borsellino. Un
"particolare" che non si dovrebbe mai dimenticare.
L'efficacia del regime del 41 bis, combinata con la legislazione premiale sui
collaboratori di giustizia, fu all'origine di una vera e propria slavina di
"pentimenti", che consentirono di infliggere a Cosa nostra colpi durissimi e
che avrebbero potuto essere definitivi se qualcosa non si fosse messo di
traverso non appena l'azione degli inquirenti venne doverosamente indirizzata -
oltre che verso i mafiosi "doc" - anche contro i loro complici eccellenti.
Frattanto, col trascorrere degli anni, il regime del 41 bis registrò
sostanziali modifiche nell'attuazione pratica, tali da indebolirne la capacità
di corrispondere alle finalità per cui era stato pensato e approvato (recidere
o quanto meno ostacolare i collegamenti dei mafiosi detenuti con l'esterno del
carcere). Finchè si sono addirittura moltiplicate - ed è il problema oggi sul
tappeto - le decisioni della Corte di Cassazione e di vari Tribunale di
Sorveglianza che hanno revocato e continuano a revocare i decreti di 41 bis
volta a volta emanati del Ministro della giustizia.
In punto revoche, per vero, la giurisprudenza non è univoca. Vi sono sentenze
(ad esempio la n. 163/07 della Cassazione) secondo le quali, accertata la
«persistente operatività della cosca sul territorio di appartenenza», «per
affermare il venir meno della pericolosità sociale del condannato e della sua
capacità di mantenere collegamenti con la cosca, occorre individuare elementi
specifici e concreti in grado di supportare tale convincimento, che non possono
identificarsi né con il mero trascorrere del tempo dalla prima applicazione del
regime differenziato, né, tanto meno, essere rappresentati da un apodittico e
generico riferimento a non meglio precisati risultati di trattamento
penitenziario». La giurisprudenza decisamente prevalente, invece, fa leva
proprio sul decorso del tempo e sulla regolare condotta del detenuto per
escluderne la pericolosità attuale: di qui le numerose sentenze che decretano,
anche in casi clamorosi, la fine del 41 bis. Ora, poiché si tratta di sentenze
che secondo l'orientamento giurisprudenziale non univoco ma nettamente
prevalente corrispondono ai parametri di legge, è evidente che la normativa del
41 bis deve essere rivista alla ricerca di un giusto punto di equilibrio fra
rispetto dei diritti dei detenuti ed esigenze di giusto rigore, quando si
tratta di mafiosi che non hanno mai dato nessun segnale concreto (neppure
minimo) di distacco dall'organizzazione criminale cui appartengono in forza di
inoppugnabili condanne. Dando per scontato (salvo che si voglia, come dicono i
siciliani, fare solo del "babbio") che la questione del regime carcerario dei
mafiosi rimane un nodo centrale nell'azione statale di contrasto alla mafia, e
che ogni erosione - o peggio svuotamento - della funzionalità ed efficacia di
tale regime carcerario rischia di vanificare i risultati raggiunti dalle forze
dell'ordine e dalla magistratura. Il ministro Alfano - gliene va dato atto - si
è detto convinto che occorrano modifiche legislative per stringere le maglie
del 41 bis. Speriamo che non si tratti di uno di quei casi in cui, agli annunzi
suggestivi, non seguono poi fatti concreti.