L'amico del killer che uccise Falcone, i notabili sotto processo o assolti
per cavilli, i parenti stretti dei padrini.
Tutti i nomi nelle liste di Udc, Pdl e Pd. Ecco il peso dei boss nelle elezioni...
di Peter Gomez
Se le cose andranno come devono andare, se in Sicilia l'Udc supererà la soglia
dell'8 per cento dei voti, nel prossimo Senato siederà un uomo che Giovanni
Brusca, il capomafia killer del giudice Giovanni Falcone, considerava "un
amico personale". Si chiama Salvatore Cintola, ha 67 anni, è laureato in
lingue e in vita sua è stato prima repubblicano, poi socialdemocratico e quindi
socialista. Per qualche settimana ha anche militato in Sicilia Libera, un
movimento indipendentista creato nel '93 per volere del boss Luchino Bagarella.
Ma alla fine ha scoperto una vocazione per il centro ed è passato alla corte di
Totò Cuffaro diventando deputato regionale sull'onda di migliaia di preferenze
(17.028 nel 2006). Due anni fa ad Altofonte, raccontano le intercettazioni, la
sua campagna elettorale era stata condotta pure dagli uomini d'onore, ma farsi
votare dalla mafia non è un reato. Frequentare i boss neppure. E così la
posizione di Cintola, iscritto per ben quattro volte nel giro di 15 anni sul
registro degli indagati della procura di Palermo, è stata come sempre
archiviata.
Cintola, numero quattro del partito di Casini nella corsa a Palazzo Madama, può
insomma tentare liberamente il gran salto in Parlamento. E se ce la farà si
troverà in compagnia di una foltissima pattuglia di amici, parenti, soci,
complici veri, o presunti, di mafiosi, 'ndranghetisti e camorristi. Sì perché
mentre Confindustria espelle non solo i collusi, ma persino chi paga il pizzo
(persone cioè che codice alla mano non commettono un reato, ma lo subiscono),
Udc, Pdl, e, in misura minore, il Pd, di fronte al rischio mafia chiudono gli
occhi.
Nelle tre regioni del sud, Sicilia, Calabria e Campania, quello della
criminalità è infatti un voto organizzato, al pari di quello delle associazioni
dei precari (voti in cambio dei rinnovi dei contratti pubblici)
o del volontariato (voti contro finanziamenti). Quanto pesi dipende dalle zone.
In alcuni comuni della Calabria, ha spiegato il pm Nicola Gratteri, sposta fino
al 20 per cento dei consensi. Numeri analoghi li fornisce a Napoli il sociologo
Amato Lamberti che parla di una "joint venture criminale tra camorristi,
imprenditori spregiudicati e e politici affaristi, in grado di orientare su
tutta la regione il 10 per cento dell'elettorato". Mentre a Palermo, il
vicepresidente della commissione antimafia Beppe Lumia (Pd), spiega: "I
voti che Cosa nostra controlla sono circa 150mila. Sono una sorta di utilità
marginale che, indipendentemente dai sistemi elettorali, serve per raggiungere
gli obiettivi: o la quota dell'8 per cento al Senato, o la vittoria complessiva
in caso di testa a testa. Solo alla fine della campagna elettorale, comunque,
chi opera sul territorio può rendersi conto delle scelte delle cosche. È a quel
punto che i mafiosi lanciano segnali: sanno di essere forti e lo fanno
pesare".
Il palazzo di giustizia di Palermo
Già, i segnali, ma quali? I colloqui intercettati durante le ultime
consultazioni narrano che Cosa nostra, quando si vede richiedere il voto,
sceglie spesso la linea dell'understatement. "Allora noi ci muoviamo. Però
con riservatezza, come merita lui, con molta pacatezza, capisci (altrimenti)
gli facciamo danno", dicevano nel 2001 i mafiosi di Trabia a chi domandava
loro un appoggio per la candidatura di Nino Mormino, l'ex vice-presidente della
commissione Giustizia della Camera, oggi lasciato in panchina dal Pdl. Non è
insomma più epoca di evidenti passeggiate sotto braccio con il capomafia del
paese. E a Palermo, per accorgerti di cosa sta succedendo, devi saper
identificare i nomi e i volti di chi distribuisce manifestini o santini
elettorali.
Per le politiche del 2006, per esempio, tra ragazzi del motore azzurro,
l'organizzazione voluta da Marcello Dell'Utri (condannato in primo grado per
concorso esterno e in secondo per tentata estorsione), figurava tutta la
famiglia di Rosario Parisi, il braccio destro del boss Nino Rotolo, a cui era
stato pure delegato il compito di curare uno dei tanti gazebo berlusconiani.
Nel quartiere popolare della Kalsa, invece, fino a venti giorni prima delle amministrative
non si vedeva un manifesto. Poi, una bella mattina,sulla saracinesca del
negozio vuoto del più importante latitante della zona qualcuno aveva appeso un'
immagine del sindaco Diego Cammarata (verosimilmente all'oscuro di tutto). Era
il via libera. Mezz'ora dopo i muri dell'intero quartiere, come gli abitanti,
parlavano solo di lui.
Auto rubate e distrutte
sul lungomare di Palermo
Non deve stupire: la mafia, anzi le mafie, sono ormai laiche, non sono a
prescindere di destra o di sinistra, e prima della chiamata alle urne fanno dei
sondaggi. Come ha raccontato il pentito Nino Giuffrè l'organizzazione ha uomini
ovunque in grado di percepire gli umori dell'elettorato. Poi, quando diventa
chiaro chi può vincere, stringe accordi con chi è disponibile al dialogo. O
imponendo candidature, o offrendo voti in cambio di soldi, appalti o favori.
Anche per questo, e non solo per distrazione, nelle liste oggi c'è finito di
tutto. In Sicilia, per esempio, presentare Cuffaro, condannato in primo grado a
5 anni per favoreggiamento, è stato come segnare una svolta.
Cintola a parte, l'Udc fa correre alla camera Francesco Saverio Romano,
tutt'ora indagato per concorso esterno; Calogero Mannino, imputato davanti alla
corte d'appello di Palermo; e Giusy Savarino, che solo un mese fa ha visto il
Tribunale inviare, al termine del processo 'Alta Mafia', alcuni atti che la
riguardano alla procura. Secondo i giudici dalle intercettazioni e dai verbali
emerge come nel 2001 lo scontro sulla sua candidatura alle regionali tra suo
padre, Armado Savarino, e l'ex assessore Udc, Salvatore Lo Giudice, poi
condannato a 16 anni di reclusione, sia stato risolto dalla mediazione del boss
di Canicattì, Calogero Di Caro.
Certo, si può benissimo concordare con Pier Ferdinando Casini, il quale di
fronte alle polemiche, fin qui limitate al nome di Cuffaro, ripete "non è
giusto che le liste le faccia la magistratura". Resta però il fatto che il
numero di suoi candidati risultati in rapporti con uomini di Cosa nostra, o
coinvolti a vario titolo in indagini per mafia, è altissimo. Troppi per
ritenere che le accuse lanciate dai pentiti, secondo i quali il voto per il
partito di Cuffaro negli ultimi anni sarebbe stato compatto, siano del tutto
campate in aria. In questa situazione, con la magistratura che non può
intervenire perché per arrivare al processo ci vuole (giustamente) la prova
dell'accordo con i mafiosi, a denunciare e bonificare ci dovrebbe pensare la
politica.
Il tentativo della commissione Antimafia di far approvare, per iniziativa del senatore
di Forza Italia Carlo Vizzini, un codice etico che impedisse la presentazione
di candidati collusi almeno alle amministrative del 2007 è però rimasto lettera
morta. Al primo febbraio del 2008 su 103 prefetture, solo 86 avevano inviato
alla commissione una fotografia di quello che era accaduto nelle urne sei mesi
prima. E stando a quanto risulta dai documenti che 'L'espresso' ha letto,
mancavano, tra l'altro, all'appello le risposte delle provincie di Avellino,
Caltanissetta, Enna, Messina, Palermo, Reggio Calabria, Taranto e Trapani. I
partiti avversari poi tacciono tutti. Il Pdl, nonostante le polemiche contro il
"cuffarismo e il clientelismo", è prudentissimo. Anche perché gli
azzurri in lista non si sono limitati a ricandidare il senatore Pino Firrarello,
condannato in primo grado per turbativa d'asta aggravata e ora sotto inchiesta
per concorso esterno, o l'ex sottosegretario Antonio D'Alì, ex datore di lavoro
del superlatitante Matteo Messina Denaro, e oggi accusato dall'ex prefetto di
Trapani Fulvio Sodano di aver voluto il suo trasferimento per fare un piacere a
Cosa nostra (sulla vicenda è in corso un'indagine e un processo per
diffamazione).
Negli elenchi fa capolino pure la new entry Gabriella Giammanco, ex aspirante
velina, volto giovane del Tg4, ma soprattutto nipote di Vincenzo Giammanco,
definitivamente condannato come socio e prestanome di Bernardo Provenzano. E
poi ci sono tutti gli altri. A partire da Gaspare Giudice, assolto in primo
grado dalle accuse di mafia con una sentenza in cui il tribunale sostiene di
aver però "verificato con assoluta certezza" l'appoggio datogli da
Cosa nostra nel 1996 e "con grandissima probabilità" anche nel 2001.
Per arrivare a Renato Schifani, considerato in pole position dal 'Giornale'
come futuro ministro degli Interni, sebbene negli anni '80 sia stato a lungo
socio, assieme all'ex ministro Enrico La Loggia, della Siculabrokers: una
compagnia in cui figuravano anche Nino Mandalà, futuro boss di Villabate, e
Benny d'Agostino, imprenditore legato per sua ammissione al celebre capo di
tutti i capi, Michele Greco.
Insomma, meglio non discutere di mafia. Un po' come fa il Pd messo in imbarazzo
dalle proteste di Beppe Grillo e della Confindustria, quando con un colpo di
mano aveva tentato di escludere dalle liste Beppe Lumia. Dietro a quella scelta
non è difficile vedere l'ombra del grande avversario di Lumia, il dalemiano
Mirello Crisafulli, filmato mentre discuteva, dopo averlo baciato, di appalti e
favori con i boss di Enna, Raffaele Bevilacqua. Da quando nel 2007 Lumia,
condannato a morte da Cosa nostra, aveva definito la sua candidatura
inopportuna, Crisafulli, grande amico di Cuffaro, non lo salutava più. Poi in
lista c'era finito solo Crisafulli e Lumia era stato recuperato come numero uno
al Senato solo quando era diventato chiaro che stava per passare con Di Pietro.
In compenso tra gli aspiranti deputati del Pd è comparso Bartolo Cipriano, ex
sindaco e poi consigliere del comune messinese di Terme Vigliatore, sciolto per
mafia nel 2005.
Meglio vanno le cose in Calabria, dove le liste di Veltroni, capeggiate dall'ex
prefetto De Sena sono in buona parte pulite (al contrario di quanto era
accaduto con le regionali quando la 'ndrangheta votò per il centrosinistra).
Tra i democratici suscita qualche perplessità principalmente il nome di Maria
Grazia Laganà, la vedova di Francesco Fortugno, il vice-presidente della
regione ucciso dai clan, sotto inchiesta per truffa ai danni dello Stato
nell'ambito delle indagini sulle infiltrazioni mafiose alla Asl di Locri. Qui,
come in Campania, la battaglia con il centrodestra si profila in ogni caso
all'ultimo voto. E il Pdl candida al Senato (decimo posto) addirittura Franco
Iona, cugino primo del boss Guirino Iona, capo dell'omonima cosca crotonese ora
in carcere dopo anni di latitanza. Nel 2005 Iona non aveva potuto correre per
le amministrative con l'Udeur proprio a causa della sua ingombrante parentela.
Ora, nonostante le proteste del presidente della commissione Antimafia
Francesco Forgione, Iona si dà da fare per raccogliere voti e ribadisce di
essere incensurato.
Difficile comunque che ce la faccia, al contrario di Gaetano Rao, numero 17 del
partito di Berlusconi e Fini alla Camera, e soprattutto nipote di don Peppino
Pesce, vecchio boss dell'omonima e potentissima cosca di Rosarno. Per uno
strano scherzo del destino Rao si ritrova candidato assieme ad Angela Napoli
(An), membro della commissione Antimafia e feroce avversaria della 'ndrangheta.
La Napoli, insomma, ingoia amaro anche perché con lei sono candidati Pasquale
Scaramuzzino, l'ex sindaco di Lamezia Terme, un comune sciolto nel 2002 dal
governo per mafia in seguito a una sua battaglia, e Giuseppe 'Pino' Galati,
allora leader del Ccd: un partito che l'attaccava a tutto spiano.
Anche in Campania, dove solo nella provincia di Napoli, sono stati sciolti 15
comuni (in prevalenza di centrosinistra) dal 2001 a oggi, c'è incertezza.
Alle prese con l'emergenza rifiutiil Pd pare essersi mosso con relativa
cautela, anche perché scottato dalle indagini sul clan Misso e i suoi rapporti
con la Margherita. Tutt'altra storia sono invece le liste degli avversari. In
Parlamento entrerà Sergio De Gregorio, l'ex dipietrista subito convertito a
Berlusconi, indagato per riciclaggio dopo che sono stati scoperti suoi assegni
in mano a Rocco Cafiero detto ''o capriariello', un contrabbandiere considerato
organico al clan Nuvoletta. Con lui ci sarà Mario Landolfi (An), ora costretto
a fronteggiare l'accusa di essere stato appoggiato nel 2006 da un manipolo di
camorristi. E c'è pure Nicola Cosentino, uno che la mafia se l'è trovata suo
malgrado in casa, visto che uno dei suoi fratelli ha sposato la sorella del
boss, detenuto al 41 bis, Peppe Russo, detto 'o padrino'. Insomma, c'è da stare
tranquilli. Comunque finiranno le cose il 13 aprile avremo un Parlamento
specchio del paese. Peccato solo che a essere riflessa, almeno nel sud, sarà
anche la parte peggiore.
hanno collaborato Arcangelo Badolati, Giuseppe Giustolisi, Roberto Gugliotta e
Claudio Pappaianni