Le organizzazioni criminali da Sud
a Nord con grandi capitali
Articolo pubblicato su
PATRIA
INDIPENDENTE , rivista mensile dell' ANPI - Marzo 2008
«Il fenomeno mafioso - si legge nelle "linee di indirizzo" del ministro della
Pubblica Istruzione Giuseppe Fioroni emanate il 23 maggio 2007, quindicesimo anniversario
della "Strage di Capaci" - è presente, anche se in modo diverso, in tutto il
Paese» per cui, nella scuola, «l'educazione alla legalità finalizzata alla
lotta alle mafie, dovrà offrire strumenti per la comprensione delle loro
differenti connotazioni nelle diverse aree geografiche del territorio
nazionale»: da ciò la necessità di far conoscere, in un più ampio contesto,
anche «la storia e le caratteristiche del fenomeno, con particolare riguardo
alla sua pervasività, che presenta il rischio di sempre maggiori inquinamenti -
e non soltanto nel Sud - del sistema economico e delle Istituzioni pubbliche»
al fine di «promuovere negli studenti il senso di responsabilità civile e
democratica per spronarli ad un costante impegno sociale».
In questo senso, il documento integra e sviluppa le indicazioni espresse dal
ministro Rosa Russo Jervolino nell'ottobre del ‘93 in una circolare dal
contenuto più generico ma non meno incisivo relativamente all'obiettivo da
raggiungere: costituendo «la lotta alla mafia un'occasione decisiva per la
difesa delle Istituzioni democratiche», è necessario che gli insegnanti, nella
loro azione educativa, si muovano nella consapevolezza che «soltanto se
l'azione di lotta sarà radicata saldamente nelle coscienze e nella cultura dei
giovani, essa potrà acquistare caratteristiche di duratura efficienza, di
programmata risposta all'incalzare temibile del fenomeno criminale».
Rita Borsellino - «La guerra alla mafia è la nuova Resistenza» aveva
dichiarato nel novembre di due anni fa Rita Borsellino a "Contromafie", il convegno
organizzato a Roma da Libera. «La lotta alle cosche - aveva aggiunto - si fa
tutti i giorni. Bisogna scegliere da che parte stare e devono essere i giovani
i protagonisti della resistenza civile».
L'appello della sorella del magistrato, per lungo tempo vicepresidente di
Libera è sicuramente encomiabile, ma, a un'attenta riflessione, si rivela
piuttosto riduttivo e in un certo senso fuorviante. Quale il punto? Le
disposizioni e gli inviti dei responsabili dell'istruzione pubblica non possono
che essere rivolti agli studenti, che ovviamente hanno una certa età. Ma i
messaggi lanciati nel corso di una manifestazione organizzata da Libera,
alla quale aderiscono 1.300 associazioni create e gestite da persone di tutte
le età, possono avere come principali destinatari i giovani, privi di mezzi di
pressione sui signori del "Palazzo" per spronarli ad un'azione energica e
risolutiva contro le mafie? Insomma, possono i giovani, da soli, lottare contro
organizzazioni che operano in tutti i continenti, manovrano miliardi ed hanno
vantato - o vantano, stando ad alcuni nomi che figurano in certe liste
elettorali - amicizie altolocate persino nelle istituzioni deputate all'azione
di contrasto del crimine?
In altri termini, si può far finta di ignorare che quella che si presenta oggi
ai giovani è una realtà che nel passato lontano e recente gli adulti - semplici
cittadini e soprattutto uomini delle Istituzioni - non hanno voluto o saputo
evitare facendo spesso orecchio da mercante davanti alle legittime pretese di
fedeli servitori dello Stato che hanno poi perso la vita per aver contrastato
le mafie agendo con coraggio, in prima linea, ad oltranza e senza guardare in
faccia nessuno?
Il messaggio di Paolo - È una provocazione di cattivo gusto o un doveroso
richiamo alla verità delle cose il ricordo, ad esempio, dell'inutilità delle
parole pronunciate da Paolo Borsellino nell'ormai lontano agosto dell'86
commemorando il commissario Montana, il vice questore Ninni Cassarà e l'agente
Roberto Antiochia trucidati uno dopo l'altro l'anno prima? «Gli enti, le
associazioni ed i comitati che si sono dati come finalità nobilissima quella
della lotta alla criminalità - disse - hanno il gravoso e meritorio compito di
tenere desta l'attenzione dell'opinione pubblica, affinché dietro il paravento
della cosiddetta "normalizzazione" non si pervenga invece ad una frettolosa
"smobilitazione" dell'apparato antimafia e coloro che, doverosamente e
dolorosamente, hanno ritenuto in questa lotta di trovarsi in prima fila non
vengano addirittura additati, come recentemente è avvenuto, alla pubblica
esecrazione. Si deve rifiutare il concetto di emergenza nella lotta alla
criminalità mafiosa e vanno ritenuti privi di significato valido i costanti
richiami alla normalizzazione».
I provvedimenti auspicati in quegli anni sia da Paolo Borsellino che da
Giovanni Falcone per poter svolgere un'adeguata azione di contrasto del fenomeno,
furono emanati - e si rivelarono validi - solo dopo le stragi di Capaci e di
Via D'Amelio. Ma non fu tutto rose e fiori, come ricorda Antonio Ingroia,
sostituto procuratore a Palermo, nel libro L'eredità scomoda: «La sensazione
che non venisse fatto tutto quel che era necessario per sconfiggere
definitivamente e al più presto possibile l'inquinamento ambientale e morale,
finanziario e civile di cui era responsabile da decenni la criminalità
organizzata l'avemmo subito dopo le stragi. Già allora cominciammo a dire: quel
che si sta facendo è giusto, però non basta».
La mafia non c'è più - Ma la situazione, invece di migliorare, andò
peggiorando. «A cinque anni dalle stragi - si vide costretto a dichiarare
Giancarlo Caselli, procuratore capo a Palermo, intervenendo nel settembre del
‘97 alla Festa dell'Unità - non siamo riusciti ad elaborare una strategia
antimafia, abbiamo tirato avanti con gli strumenti che invece di essere stati
affinati sono stati smantellati: il 41 bis del regolamento penitenziario che
prevede il carcere duro per i mafiosi più pericolosi è svuotato, sull'articolo
513 del codice di procedura penale riguardante il valore delle dichiarazioni
rese nelle indagini preliminari abbiamo perso un'occasione, la legge sui
collaboratori di giustizia va ridisegnata. Se un boss oggi legge i giornali è
sereno o arrabbiato? Il boss non può non notare queste contraddizioni che gli
fanno comodo da una parte e dall'altra gli incessanti attacchi ai magistrati
portati avanti [da esponenti del centrodestra, fra i quali erano emerse
collusioni - n.d.a.] nel silenzio che diventa complice. Gli attacchi vanno
respinti politicamente, contrastati da qualcuno in sede politica, perché i
magistrati devono stare zitti, non possono rispondere».
In tema di legislazione antimafia - aveva dichiarato del resto in
un'intervista ad Antonio Padellaro per L'Espresso nel dicembre dell'anno
prima, a pochi mesi dalla vittoria del centrosinistra - «si può e si deve
parlare di tutto, ma non come se la mafia non ci fosse più».
Il "nuovo corso" - In sintonia con il "nuovo corso" anche il movimento
popolare antimafia, nato nell'82 dopo l'uccisione del generale-prefetto Carlo
Alberto Dalla Chiesa ed irrobustitosi all'indomani delle stragi del ‘92 in
Sicilia e gli attentati del ‘93 nel continente, cominciò a segnare il passo,
forse per inconfessabili suggerimenti di chi lo aveva cavalcato negli ultimi
tempi per mietere i consensi già ottenuti.
«Bisogna tornare a parlare di mafia e non solo quando succede qualcosa di
clamoroso: sottovalutarla - insistette Caselli - è pericoloso, ritenere che sia
finita significa dimenticare che la mafia è una questione centrale per lo
sviluppo e la democrazia». La "piovra", infatti, più che scomparsa, si era
soltanto inabissata: era andata in immersione, non faceva più rumore con fatti
di violenza eclatante ma continuava a realizzare gli affari e a coltivare
amicizie.
Nell'agosto del ‘99, la guida della Procura del capoluogo siciliano passa a
Piero Grasso, che rilancia gli appelli del predecessore. «Ci si aspetterebbe,
da parte delle Istituzioni e dell'opinione pubblica - dichiara nel discorso di
insediamento - una doverosa tensione morale e culturale, una ragionevole
aspettativa che i magistrati scoprano finalmente la verità sui tanti misteri
d'Italia, che riescano a dimostrare l'estrema pericolosità di un'organizzazione
come Cosa Nostra che, attraverso i suoi rapporti esterni, attraverso attentati
e stragi, ha posto in pericolo e potenzialmente rischia di porre in pericolo la
nostra democrazia».
Salvatore Borsellino - A distanza di quasi un decennio, le indagini sui
mandanti occulti delle stragi si sono concluse con un nulla di fatto e non
sembra che «le associazioni e i comitati» - indicati da Paolo Borsellino come
entità capaci di scuotere l'opinione pubblica - si siano dati e si diano da
fare per chiedere che si faccia piena luce sui lati più oscuri della strategia
stragista degli Anni Novanta.
L'unica efficace iniziativa in tal senso, presa l'anno scorso alla vigilia
della ricorrenza della "Strage di Via D'Amelio", è stata quella di Salvatore
Borsellino, fratello di Paolo: con una semplice lettera aperta è infatti
riuscito a rimettere in moto i titolari dell'indagine sulla misteriosa
sparizione dell'agenda rossa nella quale Paolo Borsellino annotava giornalmente
dichiarazioni raccolte, approfondimenti su certi aspetti della "Strage di
Capaci", pensieri, ipotesi ed appuntamenti.
Il motivo principale dell'eliminazione di mio fratello - ha scritto - «credo
sia stato quell'accordo di non belligeranza tra lo Stato e il potere mafioso
che deve essergli stato prospettato nello studio di un ministro negli incontri
di Paolo a Roma nei giorni immediatamente precedenti la strage, accordo al
quale Paolo deve di sicuro essersi sdegnosamente opposto. Su questi incontri,
che Paolo deve sicuramente aver annotato nella sua agenda scomparsa, pesa un
silenzio assordante e l'epidemia di amnesie che ha colpito dopo la morte di
Paolo tutti i presunti partecipanti lo ha fatto diventare l'ultimo,
inquietante, segreto di Stato, come inquietanti sono i segreti di Stato e gli
"omissis" che riempiono le inchieste su tutte le altre stragi di Stato in
Italia. Ma il vero segreto di Stato, anche se segreto credo non sia più per
nessuno, è lo scellerato accordo di mutuo soccorso stabilito negli anni tra lo
Stato e la mafia».
"Buchi neri" e assenza di volontà - Semplice opinione o ipotesi realistica?
«Ci sono numerosi buchi neri, vuoti anche sulle ore, sui minuti che precedono e
seguono la strage di Via D'Amelio» ha dichiarato qualche settimana fa a
Liberainformazione Antonio Ingroia, sostituto procuratore a Palermo. «È certo -
ha precisato - che l'agenda quel giorno fosse con lui, nella sua borsa. Secondo
un vecchio schema reiterato sempre o quasi sempre dopo omicidi eccellenti
scompaiono documenti, basti pensare alla vicende che ruotano intorno alla
cassaforte del Prefetto Dalla Chiesa, agli appunti che sono stati in parte
cancellati dai diari di Giovanni Falcone, alle videocassette scomparse del
giornalista sociologo Mauro Rostagno; solo per citarne alcuni». Ed è per questo
che i relativi procedimenti penali nei quali si ipotizza la complicità di
burattinai esterni alle organizzazioni mafiose o la possibilità di collegamenti
delle stesse con apparati deviati dello Stato si chiudono il più delle volte
con l'archiviazione. Perché tutto questo? «Perché - è stata la risposta del
magistrato - c'è una parte dell'Italia che vuole la verità ma ce n'è anche
un'altra che la verità su questi fatti non la vuole. Ci sono persone che sono
coinvolte e altre non direttamente coinvolte ma che avrebbero comunque
difficoltà ad affrontarla. E dunque preferiscono non averla. Omissioni, pigrizie
e mezze verità taciute sono la dimostrazione di una scarsa volontà a fare i
conti con questo passato. Basti pensare alla richiesta inascoltata di una
Commissione parlamentare d'inchiesta sulle stragi del '92-‘93. Non c'è risposta
nei fatti, manca una volontà politica, collettiva intendo, che non riguarda
solo la politica ma l'intera classe dirigente».
Sulla questione non sono mancati tentativi di sensibilizzazione dell'opinione
pubblica, ma si è sempre trattato di incontri basati sul "passaparola" di
comitati di impegno civico sorti spontaneamente, più che di associazioni
presenti su tutto il territorio nazionale e collegate tra loro, capaci - se lo
volessero - di mobilitare larghe fasce della popolazione.
Il dovere della politica - Una constatazione, questa, che sembra confermare
quanto osservato una decina di anni fa dall'ex parlamentare siciliano Emanuele
Macaluso nel libro Mafia senza identità. «Per fare avanzare una cultura
antimafiosa - ha scritto - è stata presa la lodevole iniziativa di discutere
questi temi. Lo fanno alcuni insegnanti, lo hanno fatto il generale Dalla
Chiesa, lo fa Caselli e sistematicamente don Luigi Ciotti con la sua
associazione Libera. Ancora una volta dico che queste iniziative, se non c'è la
politica, cioè la competizione per governare sulla base di programmi e di
valori, non portano lontano. E lo vediamo nel momento stesso in cui gli stessi
procuratori impegnati nelle inchieste contro la mafia, dopo tanti successi,
sostengono che il fenomeno sia più diffuso e pericoloso».
All'epoca, nel panorama della criminalità organizzata nazionale, spiccava Cosa
Nostra, entrata in crisi con gli importanti arresti degli ultimi tempi. Oggi
l'organizzazione più potente è la ‘ndrangheta. Per quanto riguarda la camorra
ed i gruppi pugliesi basta leggere giornalmente le notizie di cronaca. Ma ciò
che più inquieta è la "ramificazione territoriale" delle quattro malepiante
nelle regioni del Centro-Nord, denunciata a chiare lettere dal dottor Piero
Grasso proprio nel momento in cui ha lasciato la Procura di Palermo per
assumere l'incarico di capo della Direzione Nazionale Antimafia: da inchieste
in corso - ha detto - risulta che certi operatori economici, per fare affari ed
accaparrare appalti pubblici, dal Sud si dirigono verso le regioni del Nord e
dal Nord rivolgono attenzione verso le regioni del Sud.
Più che opportune, dunque, le "linee di indirizzo" del ministro Fioroni
che costituiscono la base di partenza per un'azione culturale ed
educativa efficace e duratura in tutte le scuole di ogni ordine e grado. Per la
prima volta nella storia, infatti, viene inserita al primo punto del sistema
nazionale di istruzione e di formazione l'«educazione alla legalità finalizzata
alla lotta alla mafia», concepita come «impegno comune a fronteggiare situazioni
in cui le organizzazioni criminali si pongono come antagoniste dello Stato e a
stimolare i giovani a respingere le seduzioni dell'illegalità organizzata».
Se però ci si limita ad esprimere grande soddisfazione su questo e
contemporaneamente non ci si impegna per costringere quanti operano nelle
Istituzioni ad essere coerenti e decisi sugli intendimenti proclamati, in
futuro si verificherà una situazione che non è difficile immaginare: i giovani
di oggi, divenuti adulti, si troveranno alle prese con un problema ancor più
preoccupante per il semplice fatto che gli adulti di oggi non hanno voluto
affrontare e contribuire a risolvere. E i loro figli potranno accusarli di
vigliaccheria. A ragione!
Quale potrebbe essere, allora, la strategia più efficace per il superamento
dell'annosa questione in ambito nazionale? Quella basata sulla consapevolezza
della sua vera essenza.
Mafia, potere eversivo - Negli ultimi decenni la dimensione del fenomeno
mafioso è diventata nazionale perché la grande "piovra" - costituita
oltre che da Cosa Nostra, dalla ndrangheta, dalla camorra e dai gruppi pugliesi
che della prima hanno seguito il modello operativo - non sempre adeguatamente
ostacolata dalle pubbliche istituzioni e dalla società civile, è riuscita ad
operare con efficacia e continuità snodando i suoi tentacoli, suddivisi
in tre gruppi, in altrettante direzioni: con il primo ha sviluppato in tutto il
Paese una vera e propria economia mafiosa, formata da attività di acquisizione,
riciclaggio e investimento nel settore legale di capitali di provenienza
illecita; con il secondo si è mossa come sempre alla ricerca di un collegamento
con i pubblici poteri anche a livello centrale, per avere aiuti e
protezioni d'ogni tipo; con il terzo ha esercitato, nel Sud come nel Centro-Nord,
la violenza mafiosa contro quei magistrati, poliziotti, carabinieri,
giornalisti, imprenditori, professionisti, sacerdoti ed uomini della democrazia
che nell'azione diretta a contrastarla hanno operato coraggiosamente in prima
linea, ad oltranza e senza guardare in faccia a nessuno.
Classico esempio della convergenza nefasta dei tre fattori fuori dalle regioni
del tradizionale dominio, l'uccisione nell'83, da parte di boss trapiantati in
Piemonte, del Procuratore della Repubblica di Torino Bruno Caccia proprio
nel momento in cui aveva scoperto inquietanti rapporti di suoi colleghi con
"uomini del disonore". In seguito, il radicamento nella zona ha consentito alle
cosche persino il controllo di certe fasce del consenso popolare al punto che una
dozzina di anni dopo il Consiglio Comunale di Bardonecchia è stato sciolto
d'autorità perché condizionato da un'organizzazione di tipo mafioso.
È stato attraverso meccanismi del genere, attuati a vari livelli, che nel corso
degli anni il fenomeno ha assunto la configurazione di un vero e proprio potere
economico e politico esercitato con la violenza, collocato nel più ampio
contesto di quel "sistema eversivo", responsabile dei crimini e misfatti che
hanno caratterizzato la "notte della Repubblica", costituito da politici
complici e conniventi con boss mafiosi e terroristi rossi e neri, alti
funzionari statali infedeli, burocrati collusi, soggetti deviati dei servizi
segreti, esponenti senza scrupoli dell'alta finanza sporca, gruppi eversivi e
logge massoniche non sempre del tutto segrete.
Un progetto globale - Stando così le cose l'unica via da seguire è quella
di passare dalla "visione globale" del fenomeno alla predisposizione di un
"progetto globale" per il suo superamento, articolato su quattro versanti da percorrere
contemporaneamente: giudiziario, economico, politico, democratico.
Lungo il versante giudiziario un'azione energica ed efficace è possibile a
condizione che ci sia un costante potenziamento e perfezionamento della
legislazione in materia e delle strutture della magistratura, delle forze di
polizia, dell'apparato penitenziario, dell' amministrazione finanziaria
centrale e periferica e degli organismi che vigilano sulle società commerciali,
sul sistema bancario e sugli altri enti di intermediazione finanziaria.
Lungo il versante economico si possono raggiungere buoni traguardi attraverso
provvedimenti capaci di rimuovere le condizioni che nel Meridione hanno
favorito la nascita e la crescita del fenomeno e di evitare che le stesse
possano crearsi altrove. I risultati di una ricerca svolta dal CENSIS nel 2003
hanno dimostrato che senza i meccanismi di distorsione del mercato pilotati
dalle organizzazioni mafiose, negli ultimi tempi il sistema economico
meridionale avrebbe potuto creare almeno 180.000 posti di lavoro in più l'anno.
Da ciò l'esigenza improrogabile di promuovere, da un canto, un armonico
sviluppo del Paese per superare i tradizionali squilibri territoriali e
risolvere il problema della disoccupazione che rappresenta la maggiore riserva
di manovalanza per le organizzazioni malavitose; e di varare, dall'altro, una
seria politica di incentivazione e di oculato controllo dei finanziamenti e
degli appalti pubblici per salvaguardare e sostenere l'economia sana
minacciata, nel Sud come nel Centro-Nord, dall'invadenza della mafia
imprenditrice e finanziaria.
Lungo il versante istituzionale bisogna tendere al totale risanamento morale
degli organismi rappresentativi, nazionali e locali, attraverso un'azione
diretta a disinquinare i "palazzi" dalle infiltrazioni dei poteri criminali ed
occulti ed a ripristinare quella chiarezza, quella trasparenza, quella
linearità e quell'efficienza che rappresentano la condizione indispensabile per
recuperare ed elevare il grado di fiducia dei cittadini verso lo Stato.
Lungo il versante democratico, infine, occorre intensificare la promozione di
iniziative di approfondimento culturale e di sensibilizzazione civica sul
problema per perseguire il duplice obiettivo di far capire a tutti la reale
portata e la potenziale pericolosità che il potere mafioso e la cultura mafiosa
presentano per la società, l'economia, la democrazia, la politica e le
Istituzioni e di favorire una presa di coscienza sempre più profonda sul ruolo
del "popolo sovrano" in uno Stato autenticamente democratico : un ruolo di
vigilanza e di stimolo nei confronti di quanti operano all'interno delle
Istituzioni perché si adoperino con tempestività e determinazione nei tre
precedenti settori e contribuiscano all'eliminazione delle logiche clientelari
che hanno minato alla base il nostro sistema rappresentativo.
Molto indicativo, in tal senso, l'auspicio espresso dalla Commissione
parlamentare antimafia dopo le stragi in Sicilia del ‘92 e gli attentati del
‘93 a Roma, Firenze e Milano che determinarono nel Meridione il rilancio del
movimento antimafia, genuino perché spontaneo: «In corrispondenza di
consistenti sintomi di risveglio della coscienza civile nelle aree
tradizionali, bisogna che nel resto del Paese si diffonda la convinzione del
carattere nazionale del fenomeno, della sua varietà di forme e di
comportamenti, della sua capacità di adattamento agli ambienti, della sua
aspirazione a costruire una vera e propria economia criminale, alternativa
rispetto a quella che si fonda sulla libera concorrenza e sul libero mercato.
Ma occorre, per questo, una collaborazione attiva ed un impegno proficuo da
parte degli Enti locali, delle forze economiche e sociali, della società
civile, del mondo politico».
Il testamento di Dalla Chiesa - Dodici anni prima era stato il
generale-prefetto Carlo Albero Dalla Chiesa ad esprimere, sia pure in termini
più generali, lo stesso concetto nel corso della famosa intervista rilasciata a
Giorgio Bocca (La
Repubblica, 10 agosto 1982) alcune settimane prima di perdere
la vita nella "Strage di Via Carini": «Dalla Chiesa mi prospettò, come unico
sistema per contenere il fenomeno mafioso, la sensibilizzazione
dell'opinione pubblica, per creare una coscienza collettiva antimafia».
Quella volta, l'idea di rivolgersi a Giorgio Bocca per manifestare le sue
preoccupazioni per il difficile compito da svolgere in Sicilia non fu casuale.
Era stato il comune impegno nella guerra di Liberazione che aveva portato
entrambi alla convinzione secondo la quale i valori di libertà, democrazia e
giustizia - soffocati dal fascismo e divenuti la bandiera della Resistenza e
l'essenza stessa della Costituzione - erano da tempo calpestati dai poteri
criminali e occulti.
La Resistenza - «La partecipazione alla Resistenza - scrive il figlio Nando
nel libro In nome del popolo italiano - è la prima esperienza nella quale mio
padre si trova ad agire nella duplice veste di comandante di uomini e di
combattente per la democrazia italiana. La considera anche, con orgoglio, come
la prima fonte della sua legittimazione a ritenersi un esponente della
democrazia repubblicana. La
Resistenza diventa per lui il primo momento in cui la sua
identità di ufficiale dei carabinieri si combina con un forte radicamento nei
sentimenti di un popolo». Ma non sbandierava questa sua concezione: quando ne
parlava faceva capire che contava sulla riservatezza degli interlocutori.
Infatti Giorgio Bocca, che conosceva il suo carattere, non pubblicò la frase
sulla necessità del coinvolgimento dell'opinione pubblica: la riferì ai
magistrati dopo la sua morte.
«Uccidendo Carlo Alberto Dalla Chiesa - osservò all'epoca Ernesto Galli della
Loggia (L'Europeo, 20 settembre 1982) - forse la mafia ha dato allo Stato
repubblicano il suo fin qui unico eroe. È certo che la gente ha sentito
istintivamente la figura del generale-prefetto ucciso, e la natura di questa
morte, come qualcosa di diverso dalla figura e dalla morte di tanti altri,
caduti per mano delle organizzazioni criminali». Quale il motivo di fondo? La
gente aveva capito che, «con risorse e poteri adeguati - scrisse Francesco
Alberoni (La Repubblica,
11 settembre 1982) - il generale avrebbe colpito duro, e stava addirittura per
riuscirci lo stesso perché, come tutti i grandi strateghi, aveva identificato
il punto debole dell'avversario: sapeva come vincere e anche dopo la morte ha
indicato la strada per vincere».
L'impegno degli onesti - La frase scritta in Via Carini sul luogo della
strage, «Qui è morta la speranza dei palermitani onesti», fu infatti smentita
subito dai fatti perché proprio da quel giorno - sostenne padre Ennio Pintacuda
- «il coraggio degli onesti ha fatto piuttosto crescere l'altra Palermo,
l'altra Sicilia, l'altra Italia perché mai come in questo periodo è stato
presente e attuale quel detto dei cristiani dei primi tempi: "Il sangue dei
martiri è seme di nuovi cristiani". Anche il sangue delle vittime della mafia è
stato un seme che ha fatto crescere il numero delle persone e delle forze che
si sono unite all'insegna dell'onestà e della coscienza morale e operano per
sconfiggere il subdolo potere che ha inquinato le istituzioni del Paese. La
frase del cartello di Via Carini fu come un grido di riscossa che riversò in
campo nazionale la mobilitazione contro la mafia. Si demarcò allora lo spazio
di lotta per il riscatto e furono indicate le categorie e il modo di
aggregazione di questa mobilitazione».
Un avvenimento del tutto nuovo? «Un movimento con queste caratteristiche -
precisò Pintacuda - e così esteso, non era sorto e non si era affermato in
Italia dai tempi della Resistenza, cioè dai tempi della prima liberazione che
permise di ricostruire lo Stato democratico dalle rovine del fascismo e
dalla guerra da esso voluta: uomini che si pongono al di sopra delle ideologie,
dell'appartenenza religiosa, delle classificazioni politiche, delle
collocazioni territoriali e coinvolge magistrati, uomini di chiesa,
intellettuali, borghesi, operai, anziani e giovani. È come se fosse nata una
chiesa più grande, una nuova, affascinante ideologia. La prima liberazione fu
quella che affrancò gli italiani dal potere dittatoriale e restituì all'uomo la
possibilità di far valere i suoi diritti fondamentali; la seconda dovrà
affrancare i cittadini dal losco potere della mafia ridando dignità e sicurezza
alla civile convivenza. La nuova Resistenza è partita da Palermo e dalla
Sicilia e si sta estendendo a tutto il Paese».
Arrigo Boldrini: "Nuova Resistenza!" - La conferma più autorevole della
validità di questa convinzione si registra dieci anni dopo. «Siamo per una
nuova Resistenza contro la mafia e la violenza» dichiara all'indomani del 25
aprile del 1992 Arrigo Boldrini, presidente dell'ANPI in un'intervista a
Maurizio De Luca, direttore de La Nuova Venezia, La Tribuna di Treviso e
Il Mattino di Padova. «La mia generazione - spiega - ha sofferto, senza perdere
mai la speranza e la fiducia, nonostante il travaglio di quegli anni in Italia
e dappertutto nel mondo. Le riforme istituzionali? Si possono fare, si devono
fare. Ma innanzitutto occorre un'amministrazione pubblica onesta e pulita,
bisogna battere l'illegalità e la prepotenza mafiosa. Non abbiamo bisogno di
una seconda Repubblica ma di una Repubblica avanzata e moderna che non può
scindere il suo legame con la
Resistenza, cioè con i valori ideali, moderni e avanzati, di
democrazia, diritti civili e umani, pace e solidarietà, contro provincialismo e
particolarismo».
Il giorno prima Francesco Cossiga - che, custode di tanti segreti, si era
invece battuto per la seconda Repubblica da instaurare con una revisione poco
ortodossa della Costituzione ed aveva denigrato in qualche modo la Resistenza - aveva
lasciato il Quirinale rassegnando le dimissioni da Capo dello Stato.
A ventiquattrore dall'annuncio delle dimissioni, ad alcuni giorni da uno dei
periodi prevedibilmente più complessi della storia di questa Repubblica -
chiede De Luca a Boldrini - come definirebbe il proprio stato d'animo:
preoccupazione, sconforto, speranza? O che altro? «Se devo trovare una
risposta, sarebbe fiducia. Fiducia in questo Paese. E anche in una scelta
autorevole per la Presidenza
della Repubblica».
L'ex PM svizzero - Il 23 maggio, viene ucciso Giovanni Falcone. L'indomani,
alla carica di Capo dello Stato viene eletto Oscar Luigi Scalfaro. Il giorno
dopo, in una dichiarazione a La
Repubblica, Paolo Bernasconi, ex procuratore pubblico di
Lugano, dichiara che «in Italia la mafia conduce una guerra contro lo Stato. Le
persone che si sono opposte e si oppongono a questa guerra sono poche. È in
atto una seconda Resistenza, con la "erre" maiuscola, e Falcone era uno dei
capi di questo comitato di liberazione nazionale».
Il 19 luglio viene eliminato anche Paolo Borsellino. «Nel corso dei funerali -
ricorda Nando Dalla Chiesa - tra la folla assiepata intorno alle strade o
affacciata ai balconi, passa per incanto sempre più netta una parola, dapprima
sussurrata e poi gridata con rabbia lucida: "Resistenza! Resistenza!". Come
sono lontani i volti pietrificati dal dolore di Piazza Fontana! E com'è lontana
la rabbia politicamente impotente dei funerali in cui si stringeva intorno a Pertini!
La gente mormora di un progetto, di un suo progetto istintivo. Sente possibile
una strategia: gli amici, i nemici e le cose da fare. E chi è là, chi raccoglie
il senso di quanto sente, non può non afferrare che in quel preciso istante nei
rapporti tra la democrazia dei cittadini e i poteri corrotti e criminali è
avvenuta una rottura. Che la nostra storia individuale e collettiva, di
italiani, non di palermitani o siciliani, non è e non sarà la stessa. Che i
nostri doveri sono cambiati».
Il presidente Scalfaro - La mattina del 21 luglio, commemorando Paolo
Borsellino in seno al CSM, il presidente Scalfaro - che tra i primi impegni
annota nell'agenda un incontro con i dirigenti dell'ANPI - lancia un messaggio
solenne: «Nuova resistenza!». In che senso? «Questa Patria - dice - deve saper
risorgere, e dipende da noi, uomini e cittadini. Resistere, resistere,
resistere, perché siamo dalla parte della libertà». Durante la prima
Resistenza, ai tempi del nazifascismo - spiega - «sembrava che l'aurora non
sarebbe mai spuntata, e un giorno è spuntata»; contro il terrorismo le forze si
unirono, coraggio e avanti»; oggi, nonostante le stragi e la corruzione, «la
democrazia è più forte della violenza e delle azioni criminose, di chi vuole
sconfiggere tutto. Siamo di fronte alla crisi più pesante, quella dei valori
dell'uomo, ma non vincerà né la violenza né la ricchezza senza morale -
guardate ai processi sulle tangenti - vincerà l'uomo se sarà credibile. La
gente ha bisogno di credibilità. Non di infallibilità, ché quella non ce l'ha
nessuno. Come si può chiedere se chi chiede non ha credibilità?». Per questo
«occorre ricominciare dalla ricostruzione dei valori morali» per non deludere
«le attese della gente pulita e onesta».
Lo Stato, la Patria
- aggiunge Scalfaro - non possono essere rappresentati «da chi non è degno, da
chi non è giudice perbene, da chi non è pulito, da chi non è cittadino
operoso». D'altra parte perché sono stati uccisi Falcone e Borsellino? «Per che
cosa? Per una Patria che abbia il trionfo della giustizia? O perché vinca la
disgregazione, l'abbandono, il gettare la spugna? Queste parole non si
riferiscono ai magistrati, ma a tutta la realtà dello Stato. Di chi è questa
Patria? Solo di chi muore o anche di chi vive e deve vivere e operare? Bisogna
quindi resistere. Resistere e lottare tutti insieme!».
Nando Dalla Chiesa - «Dunque - osserva Nando Dalla Chiesa - che cosa
significa "Nuova Resistenza"?. Che immagini, che progetti, che Italia stanno
dietro questa parola d'ordine che nei mesi estivi è serpeggiata, una bocca via
l'altra, un cervello dopo l'altro, dalla Sicilia alla Lombardia, dall'Emilia
alla Calabria e di nuovo al Trentino, ricevendo l'autorevolissimo avallo del
capo dello Stato Oscar Luigi Scalfaro? Chi pensa che sia uno slogan d'altri tempi
intriso di ideologia se lo tolga dalla testa: non lo è. Chi crede che sia una
moda emozionale - simbolo un lenzuolo alla finestra - si ricreda: è molto di
più».
L'appello alla "Nuova Resistenza" era all'epoca e rimane ancor oggi un
invito esplicito a battersi per fare in modo che ci sia - come ebbe a
rilevare tanto tempo fa Sebastiano Patanè, capo della Procura di Caltanissetta
- «un fronte unico, compatto dello Stato in tutte le sue articolazioni ed
espressioni, un comportamento antimafia serio da parte di tutti». Bisogna
quindi evitare gli errori del passato, bisogna fare in modo che nell'esercizio
dei poteri dello Stato ci siano coesione, coerenza, determinazione,
tempestività e non promesse non mantenute, incertezze, tentennamenti o peggio
ancora ambiguità.
"La mafia teme chi non la teme" - È necessario, in altri termini,
dimostrare con i fatti, giorno dopo giorno, che lo Stato ha la sincera
intenzione di estirpare la "malapianta" sin dalle radici più profonde. Solo
così la battaglia civile - compresa quella dei giovani - potrà aver successo;
solo così potranno essere eliminate le condizioni che hanno provocato nella
gente del Sud la delusione atavica dalla quale sono scaturite la rassegnazione,
l'indifferenza e l'omertà; solo così sarà possibile creare finalmente nel
cittadino quella "fiducia senza riserve" nel Parlamento, nel Governo, negli
Enti Locali e nella Magistratura che costituisce il fondamento essenziale dello
Stato democratico e di diritto.
Non è vero che la mafia non conosce la paura. «La mafia teme chi non la teme»
ha ripetuto per quasi mezzo secolo nei suoi libri Michele Pantaleone per far
capire che anche per la sconfitta della "piovra" vale il proverbio "volere è
potere". E non può essere altrimenti. «La mafia - sosteneva Giovanni Falcone -
è un fenomeno umano e come tutti i fenomeni umani ha un principio, una sua
evoluzione ed avrà quindi una fine».