Il collaboratore di giustizia originario di Belvedere Spinello è inspiegabilmente finito nella Casa lavoro di Castelfranco Emilia. Costretto a vivere gomito a gomito con esponenti del clan su cui ha testimoniato. Le sue rivelazioni continuano a fare paura
REGGIO CALABRIA «Buongiorno, deve venire con noi». È iniziato così, il 22 luglio scorso, l'incubo del collaboratore di giustizia Francesco Oliverio, per oltre tre mesi finito inspiegabilmente nella Casa Lavoro di Castelfranco Emilia, e costretto – nonostante le preoccupate segnalazioni del direttore dell'istituto e del Dap – a vivere gomito a gomito con detenuti comuni, in alcuni casi espressione o vicini a quegli stessi clan che il pentito ha messo nei guai con la sua collaborazione...
Motivo? Un residuo di pena relativo a una condanna di un anno inflitta ben prima dell'inizio della sua collaborazione – e già scontata per due terzi – sospesa nel 2012 e ripristinata dal magistrato di sorveglianza l'estate scorsa, senza alcun tipo di accertamento sullo status di Oliverio, o sulla sua pericolosità sociale. Un atteggiamento che sarebbe stato quanto meno superficiale nel caso di un detenuto comune, ma divenuto pericoloso nel caso di un collaboratore.
TRE MESI DA INCUBO La Casa Lavoro di Castelfranco Emilia non solo ricade in un territorio tradizionalmente dominato dai clan di Cutro – cui sono strettamente legati anche le famiglie di Belvedere Spinello di cui Oliverio era espressione – ma non ha né strutture né reparti dedicati a ospitare pentiti. Per evitare pericolosi contatti con detenuti comuni, molti dei quali arrestati legati ai clan, Oliverio è stato dunque costretto a autoimporsi un regime di pressoché totale isolamento per evitare qualsiasi rapporto con gli altri detenuti. E a nulla sono valse le disperate segnalazioni del direttore dell'istituto, che più volte ha inutilmente scritto che «presso le case di lavoro non è istituito un circuito per soggetti che rivestono la posizione processuale di collaboratore di giustizia». Allo stesso modo, inutili sono state le istanze dell'avvocato per la revoca o la trasformazione della misura decisa per il suo assistito.
UDIENZE RINVIATE PER MESI A decidere infatti avrebbe dovuto essere il Tribunale di sorveglianza di Modena, all'epoca rimasto scoperto a causa della decisione di supplire al periodo di maternità della titolare, scaricando il lavoro sui giudici di Bologna. Morale, la discussione è stata fissata solo per il sei novembre. E a nulla sono serviti i solleciti del Dap, dalla Dda di Catanzaro nonché dalla stessa Casa lavoro di Castelfranco.
Oliverio ha dovuto aspettare il 13 novembre perché venisse eseguita la revoca della misura cautelare sospesa sette giorni prima. Un'esperienza traumatica – ha fatto sapere il pentito tramite il suo legale – non sufficiente a farlo recedere dalla decisione di collaborare con la giustizia, ma che fa riflettere. Non è la prima volta che Oliverio, già dichiarato attendibile in diversi procedimenti, si trova a denunciare inefficienze del servizio di protezione, che somigliano, molto, ad anomale pressioni.
TUO FIGLIO NON LO VEDI PIÙ È quanto successo – ad esempio – con il figlio Samuele, frutto di una relazione extraconiugale, ma accettato e benvoluto tanto dalla moglie del collaboratore, come dai figli. Con il ragazzino, il pentito ha un rapporto sereno, o meglio lo ha avuto fino a quando la sua ex compagna non ha iniziato a frequentare la famiglia d'origine dell'uomo, che non ha mai condiviso la scelta di Oliverio di collaborare con la giustizia. Risultato? Da mesi il pentito non riesce a incontrare il piccolo Samuele, ma sa che non si è mosso dal "luogo protetto" in cui lui e la madre sono stati facilmente avvicinati dalla famiglia del pentito, presumibilmente in rappresentanza del clan.
MINACCE Allo stesso modo molto poco protetto perché a forte penetrazione 'ndranghetista – rivela il legale – sembra essere il luogo in cui il Servizio centrale di protezione vorrebbe spostare il collaboratore e la sua famiglia, nonostante lo stesso Oliverio – ripetutamente – ne abbia indicato la pericolosità. Anche perché sa di essere nel mirino dei clan. E non da solo. Lo ha detto chiaramente alla moglie Giovanni Spina Jiaconis, considerato vicino al clan Oliverio - Marrazzo – Iona di Belvedere. Alla donna, accorsa in ospedale al capezzale del padre su esplicita autorizzazione del servizio di protezione, Jiaconis avrebbe riferito un messaggio per Oliverio: niente nomi o la vendetta partirà dai figli «dal più piccolo al più grande». Al dibattimento La Svolta invece, le minacce sono arrivate direttamente ad Oliverio dalla gabbia degli imputati.
FIGLIO DI BOSS Originario di Belvedere Spinello, in provincia di Crotone, formalmente imprenditore edile, Oliverio non è un personaggio di secondo piano. Espressione di un clan che ha circoscritto con il sangue e le faide il proprio margine di operatività, Oliverio è figlio di boss, di un capo locale. E tale diventerà lui stesso. «Dal 2005 e sino all'inizio della collaborazione sono stato capo della "locale" di Belvedere Spinello (KR) con grado di "tre quartino". Il mio locale si componeva di 6 "ndrine" di cui una distaccata a Rho in provincia di Milano. Tale 'ndrina che era stata attivata nel milanese anche con il permesso del capo locale di Rho. Per tutto ciò che riguardava la droga, il movimento terra e le rivendite ambulanti di panini la competenza era in esclusiva della nostra 'ndrina». Lo ammette lui stesso, la 'ndrangheta è congegnata in modo che gli affiliati di rango inferiore non siano a conoscenza di quanto avvenga nei livelli sovraordinati, tuttavia Oliverio è in condizione tale da sapere molto.
I CLAN TREMANO Molto di utile soprattutto. Sa della Lombardia e degli equilibri criminali che lì erano e probabilmente sono ancora vigenti, in particolare nella zona di Rho- Pero, dove lui stesso aveva il suo feudo, ma sa – e molto – anche della Liguria, dove il suo lontano cugino e sodale Angelo Oliveri, aveva non solo parenti ma gestiva anche alcuni traffici di droga. In questo modo, Oliverio verrà a conoscenza anche degli affari più delicati dell'organizzazione in quella regione. «Ho saputo da Giulio Martino – mette a verbale - che appartenenti al clan De Stefano di Reggio Calabria avevano interessi economici in Liguria dove riciclavano denaro proveniente da narcotraffico, usure, estorsioni, tramite un professionista legato all'ambiente politico ligure e lombardo. Nel 2011 ho avuto la conferma di ciò anche da un altro 'ndranghetista appartenente al clan DeStefano presentatomi da Lino Panaia, un compaesano di Scandale (Kr) residente nel milanese. Lui mi era venuto a cercare perché aveva bisogno di un direttore di banca per far entrare dei soldi da Paesi arabi o africani ove avevano fatto investimenti. Al direttore sarebbe stato dato il 20% per ciascuna operazione ,un altro 20% a noi e il restante 60 % a loro».
IL FILO NERO DI BREAKFAST Elementi che trovano conferma nella colossale indagine sulla Lega Nord coordinata dalla procura di Reggio Calabria, che svelerà il ruolo oscuro dell'ex tesoriere Francesco Belsito. E proprio a proposito del vibonese cui il Carroccio per tanti tempo ha affidato la cassa e i fondi, fluiti poi sui canali del riciclaggio tracciati dal clan De Stefano di Reggio Calabria, Oliverio dice «parlando con il compare di Reggio venni a sapere che i De Stefano operavano tranquillamente in Liguria riciclando soldi e facendo investimenti. Nel discorso, quale contatto, il compare aveva accennato all'ex tesoriere della lega Belsito, nonché del precedente tesoriere dello stesso partito, da tempo deceduto, il quale oltre a favorirli nel riciclaggio gli custodiva anche le armi». Notizie, spiega Oliverio al pm di Genova Giovanni Arena che lo interroga, già riferite nei 180 giorni, dunque prima che l'indagine Breakfast svelasse i rapporti oscuri del Carroccio. Una circostanza che conferma l'attendibilità intrinseca del collaboratore – del resto già messa nero su bianco da sentenze come "La svolta" – che è stato in grado di svelare come i clan lombardi si stessero organizzando per Expo.
LE MIRE DEI CLAN SU EXPO «Come già detto – riferisce al pm – io avevo le funzioni di capo locale di Belvedere Spinello dal 2005 che comprendeva anche la 'ndrina distaccata di Rho. Preciso che il nostro locale era stato rotto nel 1988 a seguito di una faida in tema estesasi all'intero crimine di Cirò. Faida iniziata in conseguenza degli omicidi di Rinaldo lona e di mio padre Antonio Vincenzo Oliverio, il capo locale dell'epoca». Una situazione delicata, che si protrarrà per anni, fino al 2004, quando «per porre fine ai dissidi interni, Carmine Arena, una delle massime cariche della "provincia", poi ucciso nello stesso anno, uscito dal carcere, decise di fare un rimpasto. Mi venne a trovare a Milano e mi propose di attivare un nuovo locale a Rho in previsione degli appalti di Expo». Si tratta di un'indicazione estremamente importante. Nel 2004, in pochi, pochissimi parlavano di Expo. L'argomento era oggetto di discussione, riflessione e mire solo in ristrettissimi circoli e salotti, dove si valutava l'opportunità di far correre Milano per il grande evento. Le 'ndrine invece non solo già sapevano che l'evento ci sarebbe stato, ma dai massimi livelli decisionali a quelli meramente militari e organizzativi, già iniziavano a prepararsi all'evento. Tra il 2007 e il 2008 invece – ha raccontato Oliverio al processo Libra - Novella avrebbe convocato gli esponenti delle diverse 'ndrine per una sorta di coordinamento su tutti i lavori da prendere senza pestarsi i piedi a vicenda. «In quell'incontro, il primo summit di 'ndrangheta sull'Expo, eravamo presenti vari uomini d'onore e ci fu una sorta di presentazione reciproca con la esplicitazione delle rispettive zone di influenza in quanto ciò era necessario e opportuno per evitare situazioni di inopportunità». In un'altra occasione invece, qualche anno dopo, Oliverio avrebbe conosciuto l'imprenditore Francesco Comerci, formalmente titolare dell'impresa Edilsud, ma considerato solo una testa di legno del clan vibonese dei Tripodi. «C'erano da prendere gli appalti dell'Expo e lui, ad inizio 2010, mi fu presentato da altri 'ndranghetisti: mi dissero che lui era un amico, che era con i Tripodi. Dopo parlammo altre volte, e lui mi disse che avevano agganci importanti, si vantava di "portare" un politico nel Lazio, di avere amicizie tra le istituzioni ai livelli alti, tra la massoneria».
IL VOLTO OSCURO DELLE 'NDRINE Contatti poi in larga parte confermati dall'indagine Lybra, che inizierà a svelare la faccia oscura della massoneria calabrese impastata di 'ndrangheta, divenuta nel tempo camera di compensazione di interessi diversi: istituzionali, politici, criminali. In altre parole, il potere, cui – spesso – sono proprio le grandi opere a fare da cartina tornasole. E allora forse non a caso proprio il collaboratore si sente in dovere di avvertire il pm Arena che su quel potere e cosa abbia significato nel ponente ligure sta indagando. «Prima di chiudere vorrei precisare, dottore Arena, che lei è a rischio. La 'ndrangheta, quando vi saranno delle sentenze o delle confische di beni gliela farà pagare. Non aspettate che succeda perché poi sarà tardi. Non necessariamente agiscono con criminali, ma il più delle volte tramite persone insospettabili che vengono definite "corpo riservato" di cui parlerò in seguito». Dichiarazioni ovviamente al momento omissate, ma – se confermate - potenzialmente devastanti. E che non possono che far riflettere sui curiosi disguidi in cui – casualmente – è incappato il collaboratore.
Alessia Candito