[ed il Senato autorizzi d'urgenza l'arresto, evitando qualche volo, ad esempio, per Emirati, Libano o Australia...]
La DDA di Reggio Calabria procede e mantiene fede all'impegno di arrivare e colpire il “livello superiore” della 'ndrangheta reggina, ovvero quell'area che passa dalla Massoneria ed arriva alle Istituzioni, sino al Parlamento.
Il colpo dell'operazione “MAMMA SANTISSIMA” è davvero pesante con, soprattutto, la chiusura del cerchio sulla componente apicale “segreta o riservata” della 'ndrangheta, evoluzione di quella “Santa”, nata negli anni Settanta, che segnava la trasformazione «della ‘ndrangheta da società dello sgarro a struttura di potere» attraverso la «creazione di interferenze fra ‘ndrangheta e ambiti massonici per determinare il controllo di interi settori dell’economia e delle istituzioni». E lì, in questa struttura segreta a capo della 'ndrangheta, oltre c'erano DE STEFANO Giorgio, ROMEO Paolo, CHIRICO Francesco, SARRA Alberto ed il CARIDI Antonio Stefano(di cui ci siamo già ampiamente occupati)...
La DDA di Reggio Calabria dopo essere riuscita a mettere a segno il risultato di “META” e l'evoluzione dell'inchiesta “BREAKFAST”, è arrivata agli altri risultati, con tappe forzate, che hanno squarciato il velo sugli “invisibili”...
Vediamone sinteticamente due di queste tappe:
- l'arresto di BALESTRIERI Giorgio Hugo (foto a lato), oggetto dell'indagine “MAESTRO” ed a lungo “irraggiungibile” grazie alla protezione massonica. Quell'arresto ha inflitto un duro colpo alle cosche della Piana, a partire dai MOLE', ponendo le basi alla disarticolazione di quella ragnatela esterna alla 'ndrangheta che agevola i grandi traffici di armi e stupefacenti attraverso, in primis, i Porti di Gioia Tauro e Genova (porti che le cosche, tra l'altro, volevano sostituire perché ormai scali troppo “attenzionati”), e che vede una costante in un “vettore”che finalmente la magistratura antimafia riesce a “cristallizzare”:un colosso dei trasporti marittimi, la MSC.
La rete degli attori a servizio dell'organizzazione che vedeva uno dei fulcri principali nella figura del BALESTRIERI,non era circoscritta al solo peso dello stesso nell'ambito massonico, ma soprattutto alla sua rete di relazioni e di legami perversi con i Servizi (non soltanto italiani);
- dopo i nuovi molteplici colpi inflitti ai CONDELLO, LIBRI, ROSMINI, DE STEFANO e TEGANO, è arrivata l'operazione “FATA MORGANA” che ha disarticolato la “loggia coperta”guidata dall'avvocato ROMEO Paolo, con il suo braccio destro MARRA Antonio, che garantiva alla 'ndrangheta reggina non soltanto l'interfaccia con le Istituzioni, bensì rappresentava una vera e propria struttura in grado di condizionare politica, pubblica amministrazione ed economia, nell'interesse delle cosche 'ndranghetiste. Inchiesta che, a stretto giro, ha già avuto un seguito diretto e concreto anche sul versante della burocrazia pubblica asservita agli interessi 'ndranghetisti con l'operazione “REGHION” e quindi l'operazione “MAMMA SANTISSIMA”.
La manovra di avvicinamento alla presentazione del conto al “CORPO RISERVATO” della 'ndrangheta, di cui ha parlato nelle sue verbalizzazioni e deposizioni il collaboratore di giustizia Francesco Oliverio, vede imprimere un importante accelerata da Reggio Calabria, e con l'arrivo alla guida della Procura di Catanzaro del Proc. Nicola Gratteri, il risultato, anche sul versante delle potenti entrature della 'ndrangheta del crotonese, potrebbe non tardare ad arrivare.
QUEL FILONE “BRUCIATO” SU CARIDI CHE POI PUNTAVA ALL'ANTIMAFIA
Prima di entrare nel merito delle oltre duemila pagina di Ordinanza di Custodia Cautelare emessa dal GIP di Reggio Calabria per l'operazione “MAMMA SANTISSIMA”, ripercorriamo un attimo quanto già si sapeva del CARIDI che, nonostante tali risultanze, è rimasto nei banchi del Senato della Repubblica, accolto dal partito del Ministro dell'Interno, Angelino Alfano, il NCD.
Il Centro Operativo D.I.A. di Genova avviava una manovra investigativa centrata sulla organizzazione 'ndranghetista dei GULLACE-RASO-ALBANESE che evidenziava il ruolo apicale del RASO Girolamo detto “Mommo” e “il Professore”, quello di referente per tutto il nord-ovest del Paese svolto dal noto GULLACE Carmelo detto “Nino” e “Ninetto”, ed il tandem di guida della “locale” di Canolo con capo-locale RASO Giuseppe detto “avvocaticchio” affiancato dal GULLACE Francesco detto “Ciccio”, rispettivamente fratellastro e fratello del GULLACE Carmelo. L'indagine della D.I.A. vedeva l'apertura di un procedimento penale presso la Procura della Repubblica di Genova nel 2008. Attraverso la manovra investigativa in questione vengono monitorati i rapporti e le relazioni interne alla cosca, nelle sue dislocazioni che, partendo dalla Calabria, si sviluppano, in particolare, in Liguria, Piemonte, Lombardia e Lazio. Vengono documentate le attività illecite promosse ed anche gli incontri e le influenze sulla politica. Tra queste ultime emergeva in modo inequivocabile l'azione di palese intimidazione, promossa dal sodalizio dei GULLACE-RASO-ALBANESE, per garantire un ampio consenso elettorale, in occasione delle elezioni regionali del 2010, per il CARIDI Antonio Stefano, che venne puntualmente eletto e nominato Assessore regionale nella Giunta guidata dallo SCOPELLITI Giuseppe.
L'indagine della D.I.A. non aveva ancora visto la stesura dell'Informativa finale, quando, il 17 ottobre 2011, l'allora Procuratore Vincenzo SCOLASTICO, a capo della DDA di Genova, inviava alla Commissione Parlamentare Antimafia una relazione, in vista della missione dello stesso organismo bicamerale in Liguria (21 e 22 ottobre 2011), in cui forniva ampio dettaglio dell'inchiesta non conclusa, compreso il riferimento al CARIDI.
Ovviamente tale dettaglio, comprensivo di incontri della cosca monitorati, ed il richiamo ad un esponente di primo piano della politica calabrese, trovava ampio risalto sulla stampa, rendendo di fatto noti i dettagli dell'inchiesta – non ancora conclusa – agli stessi soggetti coinvolti nell'indagine, ed al CARIDI stesso.
Per tale fatto, come Casa della Legalità, si promosse – in data 26.10.2011 - un esposto all'Autorità Giudiziaria competente, nonché anche alla Direzione Nazionale Antimafia (che procedeva nel trasmetterlo al Consiglio Superiore della Magistratura), sottolinenando la gravità della fuga di notizie che aveva compromesso in modo evidente l'indagine della D.I.A. in fase di chiusura ma non ancora chiusa.
Ovviamente nonostante le risultanze ampie dell'inchiesta, dopo la fuga di notizie, non vi fu alcuna conseguenza ed il CARIDI si candidava, nel centrodestra, per il Senato della Repubblica. Eletto senatore, nel 2013, ad ottobre viene inserito nella lista dei parlamentari che avrebbero dovuto entrare nella nuova Commissione Parlamentare Antimafia. Come Casa della Legalità si procedeva quindi ad inviare immediatamente una comunicazione urgente alla Presidenza delle Camere segnalando dettagliatamente quanto emerso rispetto al rapporto consolidato del CARIDI con l'organizzazione 'ndranghetista - così come emerso dall'inchiesta della D.I.A. di Genova – e, quindi, chiedendo formalmente, datata 7 ottobre 2013, che il CARIDI Stefano Antonio non venisse inserito nella Commissione Parlamentare Antimafia. Si procedeva anche a rendere pubblica la questione, il giorno seguente, con un ampia pubblicazione sul sito internet titolata “Caridi Antonio Stefano in Commissione Antimafia? Inaccettabile.” (leggi qui).
Il “Corriere della Calabria” dava ampio spazio all'opposizione della Casa della Legalità alla nomina in Antimafia del CARIDI, richiamando ampiamente fatti e circostanze (vedi qui).
Il M5S ci chiese informazioni in merito e gli si fornirono tutte le informazioni. Lo stesso M5S sollevò quindi, con la deputata Dalina Nesci (una delle poche con schiena dritta e caparbietà che, non a caso, trova forti opposizioni interne proprio in articolazioni locali del M5S calabrese e non solo visto che non l'hanno inserita in Commissione Antimafia), la questione dell'inopportunità dell'inserimento del CARIDI in Commissione Antimafia.
Il CARIDI Antonio Stefano, da buon “invisibile”non apprezzava tanta risonanza per i suoi rapporti con la 'ndrangheta, e tagliò corto ritirandosi dai Parlamentari che dovevano comporre la Commissione Antimafia. In quell'occasione annunciava che avrebbe agito con i suoi legali contro chi aveva sollevato il caso. Come Casa della Legalità gli rispondemmo, pubblicamente, in modo semplice e chiaro: “venga pure avanti... lo aspettiamo con ansia!” (leggi qui). Ma il CARIDI non si è fatto vivo.
Ora, sul punto, alla luce della inconfutabile pesantezza degli elementi emersi nell'inchiesta “MAMMA SANTISSIMA”, per un minimo di credibilità istituzionale, sarebbe necessario che: 1° Angelino Alfano, Ministro dell'Interno, in qualità di Presidente del NCD promuovesse l'espulsione dal suo partito e dal gruppo parlamentare del CARIDI; 2° il Senato procedesse con urgenza, ovvero nei prossimi giorni, nella discussione e approvazione dell'autorizzazione a procedere nei confronti del CARIDI.
LA LIGURIA, DOVE LA “COSA NUOVA” DOMINA DA DECENNI
Richiamato il recente passato della vicenda CARIDI, in relazione alla cosca GULLACE-RASO-ALBANESE, non possiamo esimerci dal richiamare, sinteticamente, quanto emerso in terra di Liguria, che, ancora una volta, si conferma essere lo specchio perfetto del peggio della Calabria.
Anche qui, dagli anni Settanta, come abbiamo più volte documentato, proprio attraverso l'asse con la massoneria - tra P2, Logge “coperte” ed altre strutture massoniche – la 'ndrangheta ha visto spalancarsi le porte del Potere, al cui tavolo è seduta certamente dagli anni Ottanta.
Anche in Liguria da "rapporto" e "raccordo" della 'ndrangheta "con" la massoneria si passò al divenire di una "sola cosa" delle due organizzazioni. Le tracce di questa evoluzione sono in quell'inchiesta sul clan TEARDO ed il reticolo con l'ambiente massonico "coperto" che veniva scoperchiato dall'inchiesta parallela a quella sulla P2. Era l'inchiesta savonese, retta da Francantonio Granero e Michele Del Gaudio, che portarò all'arresto del Presidente della Regione Liguria, TEARDO, con l'accusa di 416 BIS. Lì emergevano nitididamente quei perversi intrecci tra 'ndrangheta e massoneria, tra il savonese ed l'imperiese, dove già spiccavano i nomi di FAMELI Antonio, FILIPPONE Francesco, D'AGOSTINO Giuseppe detto "Pino" con il GULLACE Carmelo, per il savonese, e dei fratelli MARCIANO' Francesco e Giuseppe, del PALAMARA Antonio e del MORABITO Ernesto, per l'imperiese, oltre a quelli di "imprenditori" di primo piano dell'edilizia strettamente legati agli uomini delle cosche da un lato e della massoneria e politica dall'altro, come il NUCERA Giovanni, padre di quel NUCERA Andrea ora latitante negli Emirati Arabini.
Questo asse prima e questo essere una "cosa sola", in terra di Liguria, vedeva protagonisti, quindi, cosche che erano espressione di quella 'ndrangheta protagonista, in Calabria, della fondazione della "Santa". Di più: ciò che accadeva in Calabria per volontà della "Santa" avveniva in Liguria. Prendiamo il supporto a FREDA. Chi fu protagonista del supporto per la latitanza e fuga? PALAMARA Antonio (foto a lato), uomo storico della locale di Ventimiglia, soprattutto espressione degli ALVARO, imparentato ai PELLE di San Luca, e strettamente legato alle cosche della Piana rappresentante in Liguria dai MARCIANO' e soprattutto dal GULLACE Carmelo e dal FAMELI Antonio. Il FAZZARI Francesco, attraverso i matrimoni, aveva legato la propria famiglia sia ai GULLACE sia ai BRUZZESE, e poteva contare sulla pieda fiducia dell'allora reggente in Liguria RAMPINO Antonio, nonché sul legame e le cointeressenze con i DE STEFANO e CATALDO Peppe, partecipanti, tra le altre cose, ad una truffa internazionale promossa negli anni Settanta proprio dal nucleo familiare dle FAZZARI, tra Italia, Belgio e Jugoslavia.
Questa "cosa sola", con il "peso" della 'ndrangheta e le "influenze" massoniche, ha condizionato le tornate elettorali (locali e regionali, oltre nazionali) in Liguria dai tempi di Alberto TEARDO (foto a lato), senza interruzione alcuna. Ha penetrato, come in Calabria, le Istituzioni e gli apparati dello Stato, conquistato pesanti entrature anche nell'ambito della magistratura.
In terra di Liguria, da allora ad oggi si è assistito a fenomeni di condizionamento di procedimenti civili e penali, all'acquisizione di informazioni da appartenenti alle Forze dell'Ordine (ed ai Servizi), passando per i condizionamenti delle composizioni di Consigli e Giunte Comunali e Provinciali per perseguire gli interessi in primis nel campo urbanistico e delle concessioni, oltre che di appalti e lavori pubblici, sino all'influenza di esiti elettorali relativi alla Regione Liguria ed al parlamento nazionale, così da poter contare su favori in tali ambiti istituzioni, passando per il condizionamento di sindacati, partiti, associazioni di categoria e Dirigenti di società, autorità e aziende pubbliche o partecipate.
Le stesse “famiglie” promotrici della “Santa” in terra di Calabria, quindi, hanno promosso il salto di qualità (e di impunità) in terra di Liguria, come se le due regioni fossero la medesima entità e promuovendo, anche qui al Nord, le stesse dinamiche di acquisizione di un potere reale che sovrastava quello quello pubblico e democratico.
Restando alle cosche della Piana e senza andare troppo indietro nel tempo, basta guardare alle recenti inchieste della Procura di Savona che hanno spazzato via il “deserto giudiziario” che aveva caratterizzato quegli Uffici prima del ritorno, a capo di quell'Ufficio, del Procuratore Francantonio Granero.
Oltre ai rapporti con la politica ed il peso nel condizionare tornate elettorali e gestione della pubblica amministrazione (di cui abbiamo già parlato più volte e su cui torneremo in altra occasione), sono, ad esempio, emerse inequivocabili le relazioni improprie di agenti dell'Arma dei Carabinieri con il boss FAMELI Antonio, legato alla cosca PIROMALLI e soprattutto operativo per la cosca GULLACE-RASO-ALBANESE, capeggiata dal GULLACE Carmelo ed in stretta relazione con i PRONESTI' (quelli facenti capo al cugino del GULLACE, ovvero il PRONESTO' Rocco detto “u lupu” che se la spassa ad Albenga).
Non solo semplici agenti, ma il boss FAMELI (nella foto a lato quando aggredì gli esponenti della Casa della Legalità a Loano, nel 2010) che dichiarava di godere della “protezione” dell'allora Procuratore della DDA di Genova Vincenzo SCOLASTICO, aveva un rapporto stretto soprattutto con uno dei principali militari dell'Arma del Nucleo Operativo di Savona, il Luog. Pierluigi Stendardo, la cui moglie Avv. MARSALA era una delle principali collaboratrici del FAMELI nelle attività illecite contestate nell'indagine scaturita nell'Operazione “CARIOCA” (per aver riportato le carte ufficiali di verbali contenuti nell'Ordinanza di Custodia Cautelare dell'Operazione “CARIOCA”, nonostante tali carte fossero pacificamente “atti giudiziari”, e nonostante lo stesso STENDARDO abbia visto non solo eseguite anche nel suo ufficio perquisizioni da parte della Squadra Mobile ma anche il trasferimento fuori dalla provincia di Savona, a seguito di querela dello STENDARDO, il Giudice del Tribunale di Genova Massimo TODELLA pronunciava Sentenza di condanna – ovviamente appellata - a 10 mesi di reclusione il Presidente della Casa della Legalità, motivando non solo che fosse diffamatorio il riportare quegli Atti Giudiziari, ma suggellando il tutto con una palese contraddizione: «[...] In realtà, ha riferito ancora la p.o. [STENDARDO, ndr], egli era stato incaricato dal comando dell'Arma dei CC di cui faceva parte di usare il FAMELI come confidente, allo scopo di acquisire elementi sui personaggi della criminalità organizzata di cui il FAMELI faceva parte. Pertanto in conseguenza dell'articolo in oggetto STENDARDO era stato fortemente diffamato, sia presso l'opinione pubblica che presso la stessa arma di appartenenza, alla quale aveva dovuto dare spiegazioni sul suo rapporto con FAMELI»). Una Sentenza assurda che però fa capire molto e che permette di inquadrare altri protagonisti della stagione di quel "deserto giudiziario" - indicato dal Procuratore Granero - nell'ambito savonese, visto che un Pubblico Ministero di quella stagione, estraneo al procedimento per la querela dello STENDARDO, si premurò, nell'immediatezza della sentenza, di sollecitare ampia pubblicazione della Sentenza emessa contro il Presidente della Casa della Legalità.
Più di recente sono emersi, con anche disposizione di misure, diversi militari dell'Arma dei Carabinieri, strettamente legati alla rete dedita all'usura ed estorsione facente capo sempre al GULLACE Carmelo (nella foto a lato con la sigaretta, insieme al fratello "affiliato" GULLACE Elio), e sempre operativi nel territorio del savonese (a proposito il GULLACE Carmelo si è visto concessi i domiciliari, quando dovrebbe essere posto al 41 BIS, visto lo spessore criminale che incarna... e visto che è possibile garantire cure ai "malati" anche in strutture detentive con regime di 41 BIS).
In fondo è storico il rapporto con esponenti delle Forze dell'Ordine da parte del sodalizio suddetto, così come la loro capacità di “aggiustare i processi”.
I GULLACE-RASO-ALBANESE con i collegati FAZZARI, FAMELI e MAMONE, così come anche, ad esempio, il PALAMARA Antonio capo storico della 'ndrangheta nell'estremo ponente ligure - per non dilungarci troppo in questa parentesi - testimoniano che quanto avveniva in Calabria sia stato perfettamente concretizzato anche in Liguria. La cointeressenza con l'ambiente massonico, sia quello “ufficiale” sia quello “riservato”, è stata il canale per l'acquisizione di una posizione condizionante della politica, della pubblica amministrazione ed anche di pezzi dei settori di controllo, che hanno garantito alle cosche di agire nella pressoché totale impunità per decenni (ed ancora).
Tutto questo ha radici antiche. In parte le abbiamo già raccontate (come ad esempio quando abbiamo affrontato la questione del rapporto di uno dei più potenti massoni tra Liguria e Calabria - MUSCOLO - con il FAZZARI Francesco (nella foto a lato), così come l'appartenenza massonica dei MAMONE e soggetti a questi collegati [ad esempio leggi qui], o ancora quando si è narrato dei rapporti dei FAZZARI – GULLACE con l'allora Vice Procuratore Generale della Cassazione CUCCO... [leggi qui] o, ancora, quando si è documentato – anni prima delle inchieste giudiziarie – del ruolo di “raccordo” tra cosche e mondo della politica e dell'impresa incarnato dai MAMONE [vai allo speciale]).
In parte le racconteremo (e documenteremo). Ma qui, da subito, due nuovi esempi di rapporti con esponenti politici-istituzionali di primo piano degli anni passati, li dobbiamo portare, in poche righe, ovviamente.
Il primo è quello relativo al processo a carico del GULLACE Carmelo e suoi cumpari d'armi nella faida di Cittanova. Accusato di due omicidi ed un tentato omicidio, tra false testimonianze e “accordo” con i FACCHINERI, al processo GULLACE vedeva scendere in Calabria, come proprio legale, l'On. Alfredo BIONDI (nella foto a lato da giovane), che già era un politico impegnato in Parlamento e con incarichi di Governo. L'avv. Alfredo BIONDI precisò in tale occasione: «Io sono venuto esclusivamente in questo processo per l'amicizia che mi lega alla famiglia FAZZARI», come ben ricorda un testimone.
Il secondo è direttamente relativo alla figura di FAZZARI Francesco (padre della Giulia, moglie del GULLACE). Il FAZZARI, attraverso i suoi rapporti, forniva supporto a chi ne necessitava nell'ambito dell'organizzazione 'ndranghetista. Dal fornire gli avvocati a reperire i soldi necessari per "aggiustare i processi". In un occasione, per esempio, per tale RATIS, relativamente ad un processo ad Aosta, il FAZZARI intervenne chiedendo di fornire l'assistenza legale ad un avvocato di Locri che era Senatore della Repubblica, l'avv. Filippo MURDACA, che accettò. Il Senatore Avvocato, successivamente, procedeva, prima a voce e poi scrivendo su carta intestata del Senato della Repubblica, nel “pregare” il FAZZARI di intervenire per il saldo della parcella visto che l'assistito non si era più vivo, e garantendo che, comunque, rimaneva a disposizione.
Due esempi di esponenti politici e parlamentari, due uomini delle Istituzioni, che davanti a uomini di 'ndrangheta non avevano remore non solo (e tanto) nel fornirgli assistenza legale, bensì ci tenevano a mostrare loro il proprio “rispetto” ed “amicizia”.
ORA PASSIAMO ALL'OPERAZIONE “MAMMA SANTISSIMA”...
In seno alla 'ndrangheta, DE STEFANO Giorgio, ROMEO Paolo, CHIRICO Francesco, SARRA Alberto, CARIDI Antonio Stefano«fanno stabilmente parte, rivestendo i ruoli dirigenziali ed organizzativi ..., della componente apicale “segreta o riservata” della predetta organizzazione criminale di tipo mafioso» .
Una componente apicale «pensata e strutturata in ossequio alle indicazioni provenienti dagli andamenti evolutivi» della 'ndrangheta, «registrati a partire dal 1969/70, prima, ed a conclusione della seconda guerra di mafia, dopo, in linea con le scelte di Giorgio e Paolo DE STEFANO (entrambi deceduti), riconosciuti fondatori ed ideatori, nei primi anni ’70 del secolo scorso (unitamente tra gli altri ai vertici delle cosche PIROMALLI, NIRTA, ARANITI, LIBRI, MAMMOLITI, CATALDO e MAZZAFERRO) della prima “struttura riservata” della ‘ndrangheta denominata "A MAMMA SANTISSIMA" (LA SANTA), caratterizzata da regole speciali in grado di rimuovere e superare a favore dei suoi qualificati componenti i tradizionali divieti fissati dalle regole tradizionali della ’Ndrangheta».
Una struttura dotata di «poteri deliberativi» e «destinata ad estendere il programma criminoso della predetta organizzazione criminale negli ambiti strategici di maggior interesse– con particolare riferimento a quelli politici, istituzionali, professionali, informativi, finanziari, imprenditoriali, bancari ed economici» da perseguire anche «avvalendosi anche di collaborazioni esterne».
I destinatari della misura detentiva (compreso il CARIDI per cui però – per assurdo – occorre attendere il pronunciamento del Senato della Repubblica, per poterne dare esecuzione) «operano stabilmente all’interno della componente apicale “segreta o riservata” della ‘Ndrangheta».
Proprio grazie a tali caratteristiche, si sono dimostrati in grado di acquisire e gestire «una eccezionale quantità di informazioni e notizie riservate, sfruttando a tal fine canali privilegiati di conoscenza collegati anche ad apparati investigativi», utilizzando le informazioni riservate a favore del sistema criminale, con il principale fine di «sviare, eludere o depistare le attività investigative e di accertamento patrimoniale in corso di svolgimento».
Una struttura finalizzata sia a «consolidare e rafforzare la presenza ed il ruolo del complessivo sistema criminale di tipo mafioso nei molteplici settori strategici di rilevanza nazionale ed estera, con particolare predilezione per quelli a carattere politico, istituzionale, professionale, informativo, finanziario, imprenditoriale, sanitario, bancario ed economico», sia, ovviamente, «aggiornare ed attualizzare il già esposto, ed articolato, programma criminoso, consolidando gli automatismi esecutivi e la evidente sincronia operativa tra le predette componenti “visibili” e la sua apicale componente “segreta”».
I promotori e dirigenti della componente “riservata” della 'ndrangheta, ereditando tale ruolo da Giorgio e Paolo DE STEFANO, si sono evidenziati essere gli avvocati Giorgio DE STEFANO e ROMEO Paolo, «provvedendo in particolare a:
a) a pianificare le raffinate strategie attuate dagli altri soggetti “riservati”, tra i quali SARRA Alberto e CARIDI Antonio Stefano, individuati quali figure politiche a cui affidare ruoli pubblici e cariche in grado di agevolare il buon esito del programma criminoso espresso in premessa attraverso le condotte di seguito specificamente richiamate;
b) a pianificare, in ambito amministrativo, le attività dirette ad interferire sull’esercizio delle funzioni degli organi di rango costituzionale – di cui sono stati membri il SARRA ed il CARIDI –, le cui funzioni venivano piegate verso interessi di parte in grado di provocare rilevanti vantaggi ed utilità personali, professionali e patrimoniali, avvalendosi a tal fine anche del dirigente amministrativo CHIRICO Francesco;
c) a programmare l’uso deviato del ruolo pubblico di SARRA Alberto e CARIDI Antonio Stefano, delle cariche di volta in volta da loro ricoperte all’interno degli organi di rango costituzionale...;
d) ad acquisire e sfruttare le informazioni riservate provenienti da apparati informativi ed istituzionali in cui infiltravano uomini legati a loro direttamente (...) ed indirettamente;
e) a pianificare e programmare, in ambito elettorale, le strategie di gestione dell’enorme bacino di voti riferibile alla struttura criminale nel suo complesso, sfruttando a tal fine le capacità operative delle singole articolazioni territoriali...».
Non risulta secondario, per le finalità della struttura e dell'organizzazione 'ndranghetista, il ruolo di CHIRICO Francesco: «organizzatore della componente “riservata” della ‘Ndrangheta, per essere diretta espressione dei soggetti di vertice della articolazione territoriale della ‘ndrangheta reggina identificabile con la cosca DE STEFANO di Archi di Reggio Calabria, agisce – sfruttando la sua capacità relazionale e di mimetizzazione connessa alla attività lavorativa svolta alle dipendenze, dal 1973 al 2004, del Comune di Reggio Calabria e, dal mese di ottobre 2004, della Regione Calabria (...) – quale indispensabile soggetto cerniera tra le componenti “visibili” e quella “riservata” ...».
Passando ai “politici” si inizia con SARRA Alberto «quale dirigente ed organizzatore della componente “riservata” della ‘Ndrangheta» che:
- nel 1992 e 1998 fruiva dell’appoggio di AUDINO Mario Salvatore e PARTINICO Riccardo, il primo capo locale di San Giovannello;
- nel 2000 fruiva dell’appoggio di esponenti della cosca PESCE e della cosca CONDELLO (è CONDELLO Pasquale cl. 50 a garantire appoggio al SARRA per il tramite di CONDELLO Domenico cl. 72);
- nel 2001 chiedeva ed otteneva che GERMANO’ Francesco fosse appoggiato dal collaboratore FIUME Antonino e da CHIRICO Francesco, esponenti di spicco della cosca DE STEFANO;
- nel 2002 concorreva alla carica di Consigliere Provinciale nell’ambito di un più ampio progetto politico, facente capo - tra gli altri - a DE STEFANO Giorgio e ROMEO Paolo (detto progetto puntava ad acquisire nell’immediato il controllo del Comune e della Provincia di Reggio Calabria collocando SCOPELLITI Giuseppe – ritenuto gestibile – nel ruolo di Sindaco del Comune di Reggio Calabria e FRANCO Antonio Michele ed altri in Provincia, in guisa da controllare l’operato di FUDA Pietro, neo eletto Presidente dell’ente: analoghe ambizioni erano nutrite in direzione delle ente regionale, il cui controllo doveva essere acquisito in tre distinti, e successivi, momenti:
a) il primo momento coincide con l’elezione dello SCOPELLITI a Sindaco del Comune di Reggio Calabria che, dimettendosi dall’incarico di Assessore regionale, consentì al SARRA – primo dei non eletti nella tornata del 2000 – di approdare in Consiglio Regionale;
b) il secondo, da concretizzarsi nel 2004, per effetto dell’elezione del PIRILLI al Parlamento Europeo, cosa realmente avvenuta e che consentì al SARRA di subentrargli in un incarico assessoriale;
c) il terzo avrebbe trovato compimento nel 2005, con la candidatura di FUDA Pietro alla Presidenza della Regione Calabria, intento vanificato da vicende giudiziarie che coinvolsero l’interessato oltre che lo stesso ROMEO);
- nel 2004, al duplice fine di impedire a SCOPELLITI Giuseppe di abbandonare l’incarico di Sindaco del Comune di Reggio Calabria (lo stesso aveva in animo di concorrere alle elezioni europee) e di guadagnare un incarico assessoriale in Regione (per come stabilito col ROMEO),chiedeva ed otteneva che i LO GIUDICE, intesi “i marmisti” di Condera, e gli ALVARO, intesi “i merli” di Sinopoli (per il tramite di LO GIUDICE Domenico), i DE STEFANO per il tramite di CHIRICO Francesco, i LIBRI/CARIDI in Reggio Calabria (per il tramite di CARIDI Antonino, CARIDI Leo ed altri) e i VADALA’ di Bova Marina (nello specifico tramite VADALÀ Antonino) appoggiassero i candidati PIRILLI Umberto ed ALEMANNO Gianni;
- nel 2005 fruiva dell’appoggio dei DE STEFANO (sempre per il tramite di CHIRICO Francesco), dei CONDELLO e dei LAMPADA (tramite LAMPADA Giulio Giuseppe), dei CARIDI/LIBRI (sempre tramite CARIDI Antonino e Leo), dei PANGALLO (tramite IARIA Domenico Carmelo, IDA’ Massimo, SPANO’ Teodoro e SPANO’ Benito), dei CRUCITTI (tramite CRUCITTI Santo e ROMEO Giuseppe) e degli ALVARO, intesi “carni i cani” (tramite ALVARO Giuseppe e ROMEO Felice Antonio);
- nel 2006 sosteneva, con esito sfavorevole, la candidatura di GIGLIO Vincenzo alle elezioni per il rinnovo del Consiglio Provinciale;
- nel 2007, in stretta sinergia con ROMEO Paolo, sosteneva favorevolmente SCOPELLITI Giuseppe candidato a Sindaco del Comune di Reggio Calabria (in guisa da perpetuare il potere di controllo e condizionamento sull’operato di SCOPELLITI secondo le medesime logiche rilevabili per la campagna elettorale del 2002), attraverso il supporto dei seguenti candidati alla carica di Consigliere Comunale, presenti in liste collegate a quella dello SCOPELLITI (…)»
Il CARIDI Antonio Stefano «dirigente ed organizzatore della componente “riservata” della ‘Ndrangheta»:
«- fruiva dell’appoggio della ‘ndrangheta, tramite la sua articolazione territoriale di vertice denominata cosca DE STEFANO in occasione di tutte le consultazioni elettorali alle quali prendeva parte, dalla prima candidatura (elezioni comunali 1997) alle elezioni regionali del 2010;
- fruiva dell’appoggio della ‘ndrangheta, tramite le sue articolazioni territoriali denominate cosche CRUCITTI ed AUDINO, avvalendosi a tal fine dell’opera di ROMEO Giuseppe (legato ai capi locale CRUCITTI Santo e AUDINO Mario Salvatore) in occasione delle elezioni regionali del 2005;
- beneficiava di rapporti privilegiati con il predetto Francesco CHIRICO, referente politico della cosca DE STEFANO, ed altri esponenti della medesima articolazione territoriale identificati in Paolo Rosario DE STEFANO, Paolo CAPONERA, Andrea GIUNGO, Vincenzino ZAPPIA, Guido Carmelo COTUGNO e Paolo Lucio DE MEO;
- si avvaleva, sempre per intercessione dei soggetti di vertice della cosca DE STEFANO, dell’appoggio delle ulteriori articolazioni territoriali della ‘ndrangheta reggina identificate nelle cosche TEGANO, LIBRI, BORGHETTO-ZINDATO, NUCERA, CARIDI, PELLE, MAVIGLIA, MORABITO e IAMONTE;
- si avvaleva dell’appoggio di PANSERA Giuseppe, genero di MORABITO Giuseppe “u Tiradrittu”, in occasione delle consultazioni elettorali per il rinnovo del Consiglio Regionale fissate per il 16 aprile 2000;
- dava mandato a soggetti appartenenti alla cosca TEGANO di individuare l’identità dell’autore della condotta di danneggiamento del portone della propria abitazione, subito in epoca antecedente alle elezioni comunali del 2007;
- fruiva dell’appoggio elettorale, in occasione delle elezioni comunali del 2007, da parte della famiglia POLIMENI, quale componente familiare di rilievo della più ampia cosca TEGANO;
- si avvaleva dell’appoggio diretto del “Crimine” Giuseppe DE STEFANO, attraverso l’opera di Angelo Gaetano CHIRICO, cugino di Francesco CHIRICO;
- si avvaleva, al fine di condizionare la manifestazione dell’esercizio di voto, della caratura criminale degli altri soggetti di vertice della cosca DE STEFANO, tra i quali Carmine DE STEFANO, Francesco CHIRICO e Antonino FIUME (oggi collaboratore di giustizia);
- beneficiava, sfruttando le relazioni privilegiate con CHIRICO Francesco ed il suo circuito relazionale, di un ingente pacchetto di voti gestito dalle famiglie originarie di Africo e residenti nella zona di Archi di Reggio Calabria;
- prestava assistenza sanitaria al latitante Paolo Rosario DE STEFANO, figlio naturale di Giorgio DE STEFANO ucciso in località Acqua del Gallo in data 9 novembre 1977».
Quindi «acquisite la veste e le funzioni pubbliche a seguito di consultazioni elettorali condizionate dalle pressanti ingerenze mafiose prima richiamate – che facevano sorgere gli obblighi di denuncia incombenti sul pubblico ufficiale ai sensi dell’art. 361, 363 in relazione all’art. 294 c.p., la cui reiterata omissione provocava gli effetti di cui all’art. 40, comma 2, c.p., cagionando la consumazione di molteplici reati contro la Pubblica Amministrazione, l’ordine pubblico, la personalità interna ed internazionale dello Stato, i diritti politici del cittadino, l’amministrazione della giustizia e l’attività giudiziaria, l’economia pubblica, l’industria ed il commercio - opera in modo stabile, continuativo e consapevole a favore del predetto sistema criminale di tipo mafioso che:
1. agevola mediante l’uso deviato del proprio ruolo pubblico, delle cariche di volta in volta ricoperte all’interno del Consiglio Comunale di Reggio Calabria, della Giunta Comunale di Reggio Calabria, del Consiglio Regionale della Calabria, della Giunta Regionale della Calabria e del Senato della Repubblica;
2. rafforza in ambito amministrativo mediante attività dirette ad interferire sull’esercizio delle funzioni degli organi di rango costituzionale di cui è o è stato componente, le cui funzioni contribuiva a piegare verso interessi di parte in grado di provocare vantaggi ed utilità personali, professionali e patrimoniali (…);
3. agevola mediante il condizionamento delle scelte dei predetti organi pubblici, ottenuto previa individuazione di risorse soggettive gestibili (tra le quali Giuseppe IERO, Antonino MAIOLINO, Maria NUCERA, Daniele ROMEO ed Antonio PIZZIMENTI, tutti interessati alle elezioni relative alle elezione delle rappresentanze “Provinciali e Grande Città” del partito “Popolo della Libertà”), in quanto legate alla comune appartenenza al medesimo contesto politico, a cui affidava incarichi in grado di accrescerne il peso e la funzione».
Ancora: «favorisce mediante la individuazione delle componenti imprenditoriali ed economiche del predetto sistema criminale di tipo mafioso a cui destinare i rilevanti vantaggi patrimoniali derivanti dalla indebita canalizzazione di ingenti risorse pubbliche e di assunzioni pilotate (…)», nonché favorire, sempre attraverso il «condizionamento operativo» le «l’assunzione di soggetti appartenenti alla predetta organizzazione di tipo mafioso presso le predette società partecipate» e «presso l'azienda ospedaliera BIANCHI – MELACRINO – MORELLI di Reggio Calabria». Analogo condizionamento avveniva anche verso privati che avevano appalti e/o subappalti, anche «avvalendosi della collaborazione del sindacalista BARILLA’ Antonino, a sua volta legato a Francesco CHIRICO».Favoriva, inoltre, la società FERROSER, «imponendo ai dirigenti della FF.SS. l'aumento del volume di lavoro» a questa affidato «al fine di consentire alla cosca TEGANO di accrescere l’importo della somma di denaro imposta mensilmente a titolo di tangente».
Ancora: «rafforza promettendo a PELLE Giuseppe, in cambio del sostegno elettorale richiesto, di strumentalizzare a favore della predetta organizzazione mafiosa– di cui la cosca PELLE costituisce espressione di vertice –le prerogative connesse alla funzione pubblica a lui affidata, canalizzando a favore degli appartenenti alla predetta articolazione territoriale i contributi per il settore agricolo di sua competenza, quale Assessore Regionale alle Attività Produttive nell’ambito delle Giunta SCOPELLITI, previa predisposizione di procedure pilotate e caratterizzate da false attestazioni da strumentalizzare al predetto fine» e «rafforza, in sede di consultazioni elettorali, mediante la diretta gestione dell’enorme bacino di voti formato (attraverso i patti di scambio...) tanto dai soggetti direttamente ed indirettamente beneficiati dai rapporti di lavoro subordinato (anche temporaneo, a tempo determinato o parziale) con le realtà imprenditoriali indicate nei punti che precedono che dalle ulteriori componenti soggettive delle rispettive articolazioni territoriali ed operative della ‘ndrangheta, le quali divenivano lo strumento attraverso cui condizionare, impedire od ostacolare il libero esercizio del voto, che veniva canalizzato, nel rispetto di una evidente ciclicità criminosa, a favore delle componenti politiche, operanti in ambito locale e nazionale, di volta in volta ritenute funzionali al perfezionamento del programma criminoso già richiamato».
LA STORIA DELL'EVOLUZIONE ATTRAVERSO I PROCESSI
Il G.I.P. di Reggio Calabria ripercorrendo la storia della 'ndrangheta sul piano giudiziario, attraverso le emergenze investigative sia di indagini condotte in Calabria, sia anche da indagini sviluppatesi in Liguria, Piemonte, Lombardia e Lazio, ed esaminando le diverse Sentenze e valutazioni, nei diversi gradi di giudizio, che hanno permesso di acquisire il dato sul carattere unitario della 'ndrangheta.
Il G.I.P. giunge a quanto emerso nel processo “META”. Nell'esaminare le Sentenze in merito a questo specifico procedimento, guardando alla Sentenza emessa in ordinario, il GIP sottolinea che il Tribunale ha evidenziato: «[...] alla luce del sopra esposto materiale istruttorio, complesso ed articolato, si può affermare che nell’ultimo decennio si è progressivamente consolidato nel territorio cittadino – ricompreso tra Villa S. Giovanni e Pellaro – con particolare riguardo alle attività predatorie di tipo estorsivo ed al settore degli appalti, un nuovo assetto criminale caratterizzato dalla nascita di un organismo verticistico di livello superiore rispetto alle singole cosche territorialmente competenti, che pur conservano la rispettiva operatività, composto da persone dotate di peculiare prestigio criminale, strutturalmente autonomo con poteri normativi cogenti e di intervento all’interno di tutto il mandamento di centro, al di là dei confini territoriali tradizionali delle zone di influenza delle singole consorterie. A partire dall’indomani della raggiunta “pax mafiosa”, ferma restando l’autonomia interna delle storiche cosche reggine, gli equilibri criminali reggini si sono lentamente e progressivamente sviluppati in senso unitario e piramidale, sì da dotare la struttura “‘ndranghetistica” di nuove regole e meccanismi automatici di operatività, per prevenire ed evitare l’insorgere di conflitti, garantendo in tal modo la conservazione dell’esistenza stessa dell’associazione mafiosa complessivamente considerata, mediante un processo evolutivo di accentramento del potere decisionale nelle mani di pochi grandi capi, così da poter determinare “a monte” le decisioni vincolanti, irradiandole a pioggia verso i livelli inferiori di siffatta struttura gerarchica, da un lato, e sì da poter relazionarsi con ambienti più elevati di tipo politico ed istituzionale, dall’altro lato, i cui soggetti, allo stato, sono in corso di esplorazione investigativa. […] A partire dai riferimenti all’unitarietà della ‘ndrangheta individuati nelle sentenze che ormai fanno parte del notorio giudiziario, da quella del 1970 sul summit di Montalto alle sentenze “BelluLavuru” ed “Armonia” sino alle sentenze “Olimpia”, ai più recenti approdi raggiunti con il processo c.d. “il Crimine”, si sottolinea come, nonostante la stabilità della suddivisione orizzontale delle famiglie di ‘ndrangheta, i vertici di tale struttura cellulare hanno progressivamente riconosciuto l’esigenza di regolamentazione dei rapporti reciproci e di coordinamento dei rispettivi interessi, facendo ricorso, dapprima, a strutture temporanee quali la convocazione di tribunali di mafia, “summit”, convocazioni rituali dei vertici delle cellule ‘ndranghetiste, e via via preso atto della indispensabilità della creazione di organismi stabili costituiti da cerchie ristrette di coordinamento e di indirizzo per superiori esigenze di coordinamento e regolamentazione. […] Proprio questa riorganizzazione della ‘ndrangheta in una prospettiva verticistica ed unitaria per quanto attiene al controllo del mandamento di centro – oggetto precipuo di questo processo – consente di superare quella frammentazione tanto lamentata da Giglio Mario nelle intercettazioni captate nell’ambito dell’indagine relativa ai “Lampada – Valle” – proiezione milanese della cosca CONDELLO – allorché denunciava la circostanza che quando un imprenditore del Nord doveva venire a Reggio Calabria per affari era costretto a relazionarsi con tante persone, mentre occorreva individuare un unico referente. E l’accentramento del potere nelle mani di capi di indiscussa caratura criminale, unanimemente riconosciuta, consente all’associazione mafiosa di acquisire forza, potere e prestigio anche nei rapporti con l’esterno. […] Ebbene, alla luce di tutto quanto emerso, si può affermare l’esistenza di un nuovo organismo associativo sovraordinato rispetto alle singole cosche territorialmente competenti, in rapporto strutturale e funzionale paragonabile a quello intercorrente tra l’Unione europea ed i singoli Stati membri, organizzato sulla base di ferree regole criminali attraverso automatismi criminali collaudati». E, scrive ancora il GIP richiamando la Sentenza “META” del Tribunale: una componente chiamata “a relazionarsi con ambienti più elevati di tipo politico ed istituzionale”.
Tra gli altri procedimenti che il GIP richiama vi è proprio “FATA MORGANA” che vede come principale indagato, oggetto di misura detentiva l'avvocato ROMEO Antonio.
Scrive il G.I.P.: «...nella recentissima ordinanza, n. 43/2016 R. O. C. C. (operazione c. d. Fata Morgana), resa da questo Ufficio, fra gli altri, a carico dell’altro odierno indagato Paolo ROMEO, anche per fattispecie di associazione segreta di cui agli artt. 1, 2 L. 17/1982, aggravata ex art. 7 Legge 203/1991, proprio per la finalità di agevolazione della ‘ndrangheta, si è sottolineato come modalità operative della ‘ndrangheta connotate dalla c. d. intimidazione lieve siano speculari a quelle della suddetta associazione segreta, in grado di esercitare una sorta di forma di dolce ricatto nei confronti della P. A., dolcemente condotta a perseguire i fini di quel sodalizio. Accanto a questo modus operandi, ovviamente, resta ferma la tradizionale operatività mafiosa, improntata alla violenza, in certi contesti tuttavia quasi relegata all’agire di soggetti che della violenza e della minaccia si servono per attuare gli scopi del sodalizio,ma che di questo sono i componenti (un tempo maggiormente rilevanti in ottica anche giudiziaria) che restano confinati al rango di esecutori di condotte che rientrano, nella loro programmazione, in più elevati contesti, i quali, come indicato nella citata ordinanza, sono ammaliati dal fascino del potere criminale, illusi dalla possibilità di guadagni modesti (ma “facili”), persuasi di avere una qualche rilevanza all’interno dell’associazione, grazie anche a riti, rituali e codici che cementano il vincolo solidale, mascherando le reali linee di potere che governano il gruppo».
Ancora: «Non è un caso, quindi, che quanto effigiato dalle indagini di cui al procedimento n. 65/2013 RGNR DDA, c. d. Fata Morgana, faccia emergere delle particolari forme di riservatezza tese ad evitare che il contatto fra il partecipe del livello inferiore, operativo,dedito all’intimidazione sociale, il MARCIANÒ Domenico nella specie, ed il soggetto dedito all’infiltrazione nei sistemi di governo sociale ed economico, il ROMEO Paolo, indagato pure nel presente procedimento, sia percepibile dalle Forze dell’Ordine. Piuttosto, il momento di collegamento viene garantito da soggetti che svolgono quel ruolo cerniera sopra indicato fra le due sfere relazionali. E, nell’indagine di cui si è detto, rispetto al rapporto fra il MARCIANÒ Domenico ed il ROMEO Paolo (indagato, si ripete, anche nell’odierno procedimento, con ruolo di primazia assoluta, assieme al DE STEFANO Giorgio), il ruolo cerniera viene svolto dal CHIRICO Giuseppe, che, poi, non a caso, finisce con l’essere il soggetto che permette all’associazione mafiosa di conseguire, in quel procedimento, la concreta materializzazione dell’investimento criminale posto in essere, mediante il suo penetrare nel sistema di governo del centro commerciale di Villa San Giovanni denominato la Perla dello Stretto. Se, pertanto, il soggetto chiamato a realizzare il più alto progetto del sodalizio mafioso, mediante l’infiltrazione dei gangli di potere economico – istituzionali (nella specie, per il segmento del suo operare effigiato, nell’attualità, dalle indagini di quel procedimento, ovvero il riassetto, in termini di rilevanza per l’intera ‘ndrangheta cittadina dell’infiltrazione del settore della grande distribuzione alimentare) veniva tutelato in modo da non essere percepibile, corrette appaiono le conclusioni cui giunge la sentenza emessa nell’ambito del procedimento Meta, laddove sottolinea come la componente incaricata dell’espressione maggiormente intimidatrice della ‘ndrangheta, quella, cioè, immediatamente percepibile, sia gerarchicamente subordinata a quella chiamata a gestire l’infiltrazione degli ambiti politico – istituzionali». «Non può stupire, allora, che, nel procedimento n. 65/2013 RGNR DDA, il meccanismo svelato dalle indagini abbia fatto emergere che i meandri nei quali si muovevano l’odierno indagato Paolo ROMEO e suoi speciali sodali, quali il MARRA Antonio e l’IDONE Antonio, siano stati caratterizzati da risultanze che hanno permesso di affermare l’esistenza di un’associazione segreta, ai sensi della c. d. Legge Anselmi.
E certamente non stupirà neanche che alcuni di questi soggetti siano entrati a piè pari anche nella presente indagine, che quella anticipa temporalmente ma che ad essa si correla, in una sorta di continuità non solo storica ma anche fattuale e logica, disegnando i prodromi di quel sistema di controllo alto ed altro che caratterizza l’operare di una parte della ‘ndrangheta, quella non visibile, non immediatamente percepibile».
LA SOVRAPOSIZIONE TRA LOGGIA SEGRETA E 'NDRANGHETA
L'impianto accusatorio relativo alla “componente apicale segreta” della 'ndrangheta, sia rispetto alla contestazione del 416 BIS,sia per la violazione della Legge Anselmi, trova un fondamento solido che il G.I.P. ricostruisce, ancora una volta, in modo dettagliato.
«... a conferma delle considerazioni che si sono sopra operate, che autorevole dottrina... sottolinea come assieme agli interessi primari dell’ordine pubblico e della libertà morale, siano oggetto della tutela della fattispecie incriminatrice di cui all’art. 416 bis C. p., l’interesse ad un corretto ordine economico, quello ad un corretto funzionamento della pubblica amministrazione e l’interesse ad una distribuzione del potere reale che sia ricollegabile al consenso dei consociati.
Orbene, è proprio sotto questo ultimo versante, quello, cioè, della tutela dell’interesse del metodo democratico nella distribuzione del potere reale fra i consociati che si pone, in una delle sue sfaccettature, il profilo connesso alla fattispecie associativa che ne occupa.
Cassazione, Sez. VI, 19 dicembre 1997, 2 aprile 1998, Greco, infatti, afferma che l’associazione di tipo mafioso determina (anche, n. d. e.) una situazione di pericolo di compromettere il principio di legalità democratica e rappresentativa delle istituzioni politiche.
Prendendo in considerazione talune manifestazioni particolarmente avanzate e sofisticate di associazionismo mafioso, che si presentano attivamente impegnate su molteplici versanti, in guisa da arrecare gravi lesioni effettive all’ordine pubblico, alla libertà morale dei consociati, all’ordine economico, al corretto funzionamento della pubblica amministrazione, alla libertà di voto e, quindi, all’ordine politico amministrativo e alle regole fondamentali di convivenza civile, si sottolinea come, a questo livello di lesioni effettive, l’associazione mafiosa si presenta come un ordinamento giuridico parallelo ed antagonista a quello ufficiale e si propone come una vera e propria manifestazione di contropotere criminale. Questo carattere di contropotere, talora frammisto con le strutture dei poteri legali, dà all’associazione mafiosa di livello avanzato una valenza politica di attacco frontale e concorrenziale ai poteri legali ed al sistema democratico, mettendo in crisi interessi fondamentali quali, appunto, l’unicità dell’ordinamento statale, l’esclusività del metodo democratico come strumento di lotta politica, l’esclusività del monopolio statale della forza. La potenzialità lesiva di questa peculiare associazione criminale, quindi, finisce con l’operare sul terreno squisitamente politico della destabilizzazione delle istituzioni.
Interesse all’ordine democratico, quindi, può essere definito l’interesse della collettività a che sia contrastata la conquista, da parte di chiunque, di spazi di potere reale senza il consenso del corpo sociale.
Ebbene, su questo terreno, si coglie come si saldino le caratteristiche delle mafie tradizionali, come la ‘ndrangheta, e le nuove forme di associazionismo mafioso emerse, laddove, mentre le prime possono essere sostenute da una certa fascia di consenso viziato e le seconde ne sono tendenzialmente prive, operano, cioè, in assenza di qualsivoglia consenso, tutte finiscono con il ledere l’interesse protetto dalla norma di cui all’art. 416 bis C. p..
Ed è, poi, questo il terreno in cui l’associazione mafiosa si pone al confine con l’associazionismo segreto, previsto e punito dagli artt. 1 e 2 della legge n. 17/1982.
La differenza fra questa e le associazioni mafiose è doppia, atteso che le associazioni segrete sono prive del dinamismo imprenditoriale proprio delle associazioni mafiose e tendono ad occupare posizioni di potere di rilevanza nazionale e costituzionale, interferendo sull’esercizio delle funzioni di organi costituzionali, di amministrazioni pubbliche, anche ad ordinamento autonomo, di enti pubblici anche non economici, nonché di servizi pubblici di interesse nazionale, e, poi, non operano mediante lo strumento dell’intimidazione diffusa e si attivano con caratteristiche e modalità che si esauriscono nella segretezza e nella clandestinità. [..] Ancora, mentre l’associazione di tipo mafioso è anche associazione per delinquere, la fattispecie di cui alla legge 17/82 connota un reato associativo a sé stante, in cui fra le finalità non è prevista la commissione di autonomi reati – fine. Sotto il profilo della finalità di conquista di potere senza consenso, mentre l’associazione mafiosa cerca spazi di potere orientandosi verso la logica del profitto criminoso, quella segreta ricerca spazi di potere con l’occupazione clandestina di spazi direttamente politici».
E quindi, continua il G.I.P.: «Sotto il profilo della finalità di conquista di potere senza consenso, mentre l’associazione mafiosa cerca spazi di potere orientandosi verso la logica del profitto criminoso, quella segreta ricerca spazi di potere con l’occupazione clandestina di spazi direttamente politici. Si sostiene, pertanto, che la differenza di ampiezza delle due dimensioni associative trova concretizzazione nel raffrontare le diverse formulazioni usate dalle due norme in tema di pubblici servizi, laddove l’associazione mafiosa mira ad acquisire – con i metodi che le sono propri – la gestione od il controllo di servizi pubblici, mentre quella segreta di cui alla legge 17/82 mira soltanto ad interferire sull’esercizio dei servizi pubblici essenziali di interesse nazionale, senza necessariamente operare un controllo. È chiaro che, se l’associazione segreta si spingesse oltre tali limiti, tentando, ad esempio, di assumere la gestione o il controllo di funzioni costituzionali o di interesse nazionale, sfocerebbe addirittura nel delitto di cui all’art. 305 C. p..
Se la differenza fra le due forme associative si coglie in queste battute, che segnano anche la diversità del rispettivo programma criminoso, il punto di contatto fra di esse è innegabilmente rappresentato dall’elemento dell’indebita interferenza nell’attività pubblica che, sia pure con diverse esplicazioni, finisce con il diventare elemento comune, che si aggiunge ad un ulteriore dato di affinità, rappresentato dal fatto che, anche nelle associazioni segrete, come in quelle mafiose, vige una legge, quella del silenzio, che può essere assimilata all’omertà mafiosa.
Se a ciò si aggiunge la comune proiezione verso la conquista di potere senza consenso, si coglie, pertanto, la notevole contiguità, nella diversità segnalata, fra i due fenomeni associativi illeciti.
Entrambi si risolvono in un attacco al sistema democratico, attraverso un uso organico di un sistema di asservimento delle funzioni e dei poteri pubblici ad interessi e privilegi di parte, cui si aggiunge, per l’associazione mafiosa, l’impiego sistemico della violenza, dell’intimidazione e della dipendenza personale e, per l’associazione segreta, un meccanismo di sostanziale espropriazione della sovranità popolare mediante l’occupazione di settori chiave della vita del paese e la dislocazione del potere decisionale al di fuori delle sedi e delle procedure istituzionali.
Sicché, in conclusione, non è certo peregrina l’ipotesi di un gruppo associativo che, oltre a presentare tutti i connotati dell’associazione segreta in senso stretto (segretezza sull’esistenza, o sulle finalità e attività sociali, o in ordine ai soci, unita alla finalità di interferire sulle funzioni e sui servizi di rilievo costituzionale o comunque di rilevante interesse nazionale), possa perseguire anche finalità gangsteristico – imprenditoriali avvalendosi di un apparato strumentale basato su intimidazione diffusa, assoggettamento ed omertà.
In questo caso, dunque, si avrà concorso formale dei due reati associativi, associazione segreta ed associazione mafiosa, uniti dal vincolo della continuazione, non essendovi rapporto di specialità fra gli stessi. Corollario ulteriore delle superiori affermazioni è che, quando un’associazione realizzi al contempo gli estremi costitutivi del delitto di cui all’art. 416 bis C. p. e di uno dei delitti in materia di criminalità politica organizzata, ben deve ritenersi sussistere il concorso di reati, per come ritenuto, peraltro, dall’autorevole dottrina di cui si sta dicendo.
E, d’altronde,quando si saldano criminalità mafiosa e criminalità degli affari, degli affaristi e dei faccendieri – continua la dottrina – che si avvale di circuiti occulti sempre più raffinati si realizza quanto si è visualizzato in occasione della vicenda della c. d. loggia P2. Ma, a ben vedere, questo tipo di saldatura si viene a realizzare esattamente quando si riscontrano intrecci tra mafia ed ambienti di massoneria. Intrecci che, peraltro, sono già emersi».
L'inchiesta della DDA di Reggio Calabria “MAMMA SANTISSIMA” ha evidenziato e documentato in contesto ben definito che porta il G.I.P. ad evidenziare che «Non solo si è al cospetto di risultanze indiziarie in grado di confermare meccanismi operativi della ‘ndrangheta che si pongono in termini esattamente speculari sul versante del controllo dei gangli di potere politico locale, ergo del controllo delle istituzioni locali, ma si coglie come la ‘ndrangheta abbia fondato questo potere sul sapiente operare di personaggi che, come il DE STEFANO Giorgio ed il ROMEO Paolo, non a caso protagonista anche di quell’indagine, hanno rappresentato, ad ogni effetto, quella parte del sistema mafioso calabrese che è rimasta occulta, che ha agito indisturbata, anche rispetto alle iniziative investigative, conseguendo, nel corso degli anni trascorsi dopo le pregresse vicende giudiziarie,quella capacità di controllo di cui si dice».
IL CONTRIBUTO DEI COLLABORATI DI GIUSTIZIA
ROMEO temeva le rivelazioni del “Nano”, ovvero di LO GIUDICE Antonino. Un collaboratore che procedette ad importanti e precise dichiarazioni, proprio sul “livello segreto” della 'ndrangheta, ma che nonostante fosse posto a regime di protezione è stato indotto ad abbandonare quel percorso, così da tentare di cancellare gli elementi che aveva riferito e che in parallelo trovavano riscontro., anche nelle dichiarazioni di altro collaboratore VIRGIGLIO Cosimo.
Ma questo timore del ROMEO è solo uno degli elementi che emergono dall'indagine e, come il merito degli elementi forniti da LO GIUDICE e VIRGIGLIO, lo vedremo nella seconda parte.
Ancora una volta, ripercorrendo il procedimento “META”, il GIP richiama quanto sancito in Sentenze ormai definitive. In quella del procedimento in abbreviato, ad esempio, si legge: «Le recenti scelte collaborative, singolarmente considerate ed unitariamente valutate, sono di alto profilo ed ampiamente in grado di fornire aggiornati fotogrammi sulla ‘ndrangheta di Reggio Calabria con specifico riferimento tanto alle cosche di maggior peso criminale che ai rapporti tra i capi delle stesse e le figure poste al vertice dell’apparato esecutivo. Nel descrivere, infatti, i rapporti tra le cosche DE STEFANO e TEGANO, e tra queste e la famiglia CONDELLO, i collaboratori di giustizia MOIO Roberto, LO GIUDICE Antonino e VILLANI Consolato forniscono la migliore chiave di lettura di rapporti ed avvenimenti in grado di chiarire le ragioni dell’attuale assetto della ‘ndrangheta cittadina e delle dinamiche che ne hanno caratterizzato la vita e l’azione quantomeno nell’ultimo decennio. Nel delineare i ruoli dei capi locale DE STEFANO Giuseppe, TEGANO Giovanni e CONDELLO Pasquale, anche in relazione alle altre figure di maggior carisma criminale, i collaboratori di giustizia sono in grado di confermare la struttura verticistica che caratterizza anche le cosche egemoni nel territorio che ricade nella “Provincia di Reggio”, cioé nel mandamento di Centro – con ciò confermando non solo che la ‘ndrangheta ha superato quelle logiche che la ancoravano ad un modello orizzontale – ma soprattutto la integrazione del modello cittadino, orbitante intorno alle quattro grandi famiglie, con la struttura mafiosa nel suo complesso. Ciò rappresenta la definitiva conferma che il percorso evolutivo dell’organizzazione – verso modelli gerarchicamente riconosciuti – non può fare a meno di figure universalmente accettate a cui deve essere riconosciuto il potere di governare spazi territoriali, ben più ampi della singola “locale”, coincidenti con le macroaree a cui si è accennato. Quanto sopra riportato, poi, è del tutto coerente specie laddove si evidenzia che, se da una parte emerge dalle dichiarazioni dei collaboratori una minor dipendenza delle cosche di una parte del capoluogo dalla ritualità che caratterizza altri territori ad altissima densità mafiosa, dall’altra emerge il legame di fondo, tendenzialmente inscindibile, che caratterizza l’essenza più profonda della ‘ndrangheta quale fenomeno unitario. In sostanza, l’associazione di tipo mafioso ‘ndrangheta cambia pelle, si adegua al tempo ed alle risorse del territorio su cui opera, mantenendo, però, intatte le sue caratteristiche di fondo, specie l’ortodossia di talune regole, rilevanti ben oltre quanto potrebbe suggerire una lettura meramente sociologica del fenomeno o superficiale (e stereotipata) perché ancorata all’idea di una struttura ancora tribale ed arcaica».
Nella Sentenza del procedimento a rito ordinario si legge: «Il consolidamento di quanto in nuce emerso in altri procedimenti con riguardo, purtuttavia, solamente a limitati settori specifici di interessi economici, passa altresì attraverso le recenti collaborazioni di LO GIUDICE, VILLANI e MOIO, che hanno fornito una chiave di lettura attualizzata dei contenuti già espressi da IANNO’ quanto a CONDELLO Pasquale e da FIUME quanto a DE STEFANO Giuseppe». «Analogamente, alcuna ricostruzione - che voglia ritenersi rispettosa delle statuizioni giurisdizionali aventi autorità di ‘giudicato’ - potrebbe prescindere dalla centralità di alcune figure di altissimo profilo, quali quelle di Pasquale CONDELLO, Giuseppe DE STEFANO, Giovanni TEGANO, Pasquale LIBRI, in primis, il cui ruolo trova ampia dimostrazione nelle propalazioni dei collaboratori IANNO’ e FIUME, nonché più recente conferma nelle dichiarazioni di LO GIUDICE, MOIO e VILLANI (…). Le recenti scelte collaborative, singolarmente considerate ed unitariamente valutate, sono di alto profilo ed ampiamente in grado di fornire aggiornati fotogrammi sulla ‘ndrangheta di Reggio Calabria con specifico riferimento tanto alle cosche di maggior peso criminale che ai rapporti tra i capi delle stesse e le figure poste al vertice dell’apparato esecutivo. Nel descrivere, infatti, i rapporti tra le cosche DE STEFANO e TEGANO, e tra queste e la famiglia CONDELLO, i collaboratori di giustizia MOIO Roberto, LO GIUDICE Antonino e VILLANI Consolato forniscono la migliore chiave di lettura di rapporti ed avvenimenti in grado di chiarire le ragioni dell’attuale assetto della ‘ndrangheta cittadina e delle dinamiche che ne hanno caratterizzato la vita e l’azione quantomeno nell’ultimo decennio».
Passando all'esame dei singoli contributi emersi dalle dichiarazioni dei Collaboratori di Giustizia, il GIP, scrive:
«Nel procedimento Meta, IANNO’ Paolo offre, dunque, uno spaccato significativo della strutturazione e dei meccanismi di funzionamento della ‘ndrangheta, descrivendo compiutamente cariche, gradi, copiate, nonché i rapporti tra singole articolazioni e la Provincia, quale organo collegiale di vertice di tutta la ‘ndrangheta nazionale ed internazionale, comprensiva del mandamento di centro, ionico e tirrenico, specificando che il mandamento di Reggio ha a sua volta una commissione centrale più ampia di riferimento.
Dice della locale “provvisoria” che si forma ogni anno a Polsi, composta dai rappresentanti dei tre mandamenti indicati (ove una volta egli stesso, individuatala propria come la locale da rappresentare a Polsi, mandò, per suo conto, il cognato RODÀ Francesco), il Crimine di Polsi, da identificarsi proprio in questa locale provvisoria che si riunisce a Polsi in occasione della festa della Madonna e si scioglie dopo 20-25 giorni al termine della stessa.
IANNO’ indicava, quindi, la rilevanza della santa e passava a descrivere, come seguito della c. d. unificazione delle sante, l’evoluzione della ‘ndrangheta in senso unitario, con riguardo specificamente alla creazione di una “commissione” costituita da coloro che rivestivano gradi apicali, all’interno del mandamento di centro, al fine di mantenere gli equilibri progressivamente venutisi a determinare dopo la “pax mafiosa”.
Rilevante, poi, quanto dallo IANNO’ riferito in ordine al mandamento di Reggio Calabria»
«Quanto alle dichiarazioni di MOIO Roberto rese in quel procedimento, si evidenziava che egli, intraneo all’articolazione territoriale della ‘ndrangheta facente capo allo zio, Giovanni TEGANO, intraprendeva il suo percorso di collaborazione all’indomani dell’arresto, nel mese di settembre 2010, dopo la cattura di Giovanni TEGANO (avvenuta nell’ambito dell’operazione c.d. “Agathos”), che lo portava a svelare i meccanismi interni della cosca, a delinearne gli organigrammi, descrivendo le attività criminose passate ed i ruoli attuali degli accoliti.
Rendeva, in particolare, dichiarazioni sulla provincia di Reggio.
MOIO, poi, precisava che, pur permanendo il riconoscimento formale di gradi e cariche, nella “nuova” ‘ndrangheta contava il potere che il capo decideva di attribuire al sodale in base alle capacità criminali di ciascuno, così come aveva fatto Giovanni TEGANO con Paolo SCHIMIZZI e, parimenti, secondo il modus agendi della ‘ndrangheta moderna “alla Peppe De Stefano”, che raccoglie, avvicina ed accomuna le persone della c. d. “Reggio bene” (ovvero figli di imprenditori, professionisti e politici), in modo da diventare una ‘ndrangheta “più camuffabile”».
«Di seguito, invece, alcuni riferimenti alle dichiarazioni rese, nel medesimo procedimento, da VILLANI Consolato. Costui descriveva con dovizia di particolari la struttura della ‘ndrangheta, in particolare spiegando cosa significa avere il “crimine”. Egli, poi, in modo collimante con le dichiarazioni degli altri propalanti, individuava i vertici del mandamento di centro ed i rapporti con le riunioni alla Madonna di Polsi».
«Ulteriore collaboratore di giustizia escusso in quel dibattimento, LO GIUDICEAntonino, affermava, in perfetta sintonia con le dichiarazioni di FIUME e degli altri, la supremazia delle cosche CONDELLO, TEGANO e DE STEFANO, cui bisognava rivolgersi per determinati affari al di là dei confini territoriali di competenza di altre cosche.
Egli, in particolare, sottolineava che questa posizione di dominio derivava loro dal danaro e soprattutto dalle “amicizie” politiche che intrattenevano, confermando l’esistenza di quel rapporto privilegiato con esponenti delle istituzioni, della politica e della massoneria da cui mutuavano forza e potere, conformemente a quanto esposto da FIUME sul punto». «Emerge, quindi, un’altra voce che fa riferimento a rapporti esistenti fra la ‘ndrangheta cittadina, nelle sue massime espressioni, ed ambienti occulti, riservati, quali sono quelli riconducibili alla massoneria.
Il collaboratore riferiva, poi, delle riunioni che si tenevano alla Madonna di Polsi, ove si prendevano le decisioni più importanti che riguardavano tutta la ‘ndrangheta calabrese, nazionale ed internazionale e si doveva dare conto ai personaggi storici come Antonio PELLE di San Luca, ALVARO Domenico di Sinopoli, Giuseppe Antonio ITALIANO (ciò, peraltro, in armonia con le dichiarazioni di IANNO’ in ordine alla vincolatività delle direttive che le riunioni di Polsi erano destinate ad emanare in relazione a tutti e tre i mandamenti con riguardo agli omicidi eccellenti ovvero a decisioni similari), precisando che CONDELLO Pasquale si era preso la responsabilità sui LO GIUDICE e che, pertanto, egli si rivolgeva solamente a lui».
Ancora: «Effettuato l’excursus sulle dichiarazioni rese dai collaboratori di giustizia MOIO Roberto, LO GIUDICE Antonino e VILLANI Consolato, corre l’obbligo di evidenziare come, nella sentenza Meta, il Tribunale abbia osservato che anche costoro, al pari di IANNO’ e FIUME, pur con le caratterizzazioni derivanti dalle diverse provenienze ed esperienze delinquenziali e personali nell’ambito delle rispettive cosche di appartenenza, avevano fornito un’importante chiave di lettura dei rapporti e degli avvenimenti, in grado di chiarire le ragioni dell’attuale assetto della ‘ndrangheta cittadina e delle dinamiche che ne avevano caratterizzato la vita e l’agire nell’ultimo decennio». «Gli argomenti di prova tratti dalle dichiarazioni dei collaboratori, aggiunge il Tribunale, hanno avuto conferma e riscontro estrinseco nelle intercettazioni dei dialoghi di CHIRICO Angelo Gaetano in ordine al preminente ruolo assunto da Giuseppe DE STEFANO ed al nuovo volto della ‘ndrangheta reggina da costui determinato.
Si tratta di elementi di prova di notevole rilievo anche ai fini di questo procedimento, come si avrà modo di apprezzare nel prosieguo del presente provvedimento». Concludendo sul punto: «Conclusione, quasi coessenziale: l’altissimo profilo delle recenti scelte collaborative, singolarmente considerate ed unitariamente valutate, ampiamente in grado di fornire informazioni aggiornate sulla ‘ndrangheta di Reggio Calabria, con specifico riferimento tanto alle cosche di maggior prestigio criminale che ai rapporti tra i capi delle stesse e le figure poste al vertice dell’apparato esecutivo».
Nell'ambito delle dichiarazioni rese da IANNO' si apprende «di una pregressa esistenza di varie espressioni della santa, dell’esigenza di riunificare la santa e dell’attribuzione di nuove doti» e che «Altro contributo omogeneo viene da quanto dichiarato da Antonino LO GIUDICE il 28 ottobre 2010[…] Si coglie, quindi, la correttezza di un primo assunto investigativo: evidente, infatti, è la corrispondenza delle propalazioni di detto ultimo collaboratore con quelle di Paolo IANNO’ in merito ai gradi apicali della ‘ndrangheta (che LO GIUDICE dice di conoscere fino al “padrino”), ai rituali di investitura ed ai soggetti di vertice dell’associazione sul territorio reggino. […] Si noti, quasi a comprendere una sorta di evoluzione frattanto intervenuta che, se IANNO’ indica il grado al tempo a lui noto, quello di quartino, LO GIUDICE riferisce, invece, di quello di padrino, di successiva istituzione[...]».
Oltre all'indicazione univoca dei collaboratori di giustizia, relativamente al vertice della 'ndrangheta reggina, in Giovanni TEGANO e Pasquale CONDELLO, e le altre indicazioni (tra conferme di elementi già emersi e quelle riscontrate da altri elementi probatori) vi è il dettaglio dell'organizzazione rispetto alle diverse potenti famiglie 'ndranghetista, come ad esempio i LIBRI, così come i rapporti ed equilibri negli altri e con gli altri mandamenti, come, ad esempio quello tirrenico, dove spicca la cosca PESCE.
La “COSA NUOVA” e l'evoluzione de “LA SANTA”
Anche in questo caso il G.I.P. ripercorre quando già riscontrato nei procedimenti giudiziari passati. Ed anche qui si parte di “META”. Nella Sentenza del Tribunale, richiamata dal GIP, tra l'altro si legge: «... non può disattendersi che la ‘ndrangheta, persino più di Cosa nostra, rispetto alla quale ha unanimemente assunto, non a caso, una posizione di riconosciuta primazia, è organizzazione altamente impermeabile alle indagini (e comunque all’esterno), è connotata da un elevatissimo grado di segretezza, possiede una sconcertante capacità di infiltrazione nella società – anche negli apparati pubblici ed istituzionali – congiunta ad una altrettanto elevata capacità di mimetizzazione. […] Per comprendere esattamente la portata di quanto sin qui detto basterà por mente a due circostanze.
La prima. A metà degli anni ’70 è stata creata nella struttura interna della ‘ndrangheta “la santa”, una sorta di sovrastruttura all’organizzazione tradizionale costituente anello di collegamento tra la ‘ndrangheta e la massoneria. Così, al riguardo, è dato leggere nella relazione della Commissione parlamentare antimafia della XIII legislatura:“Una struttura nuova, elitaria, la santa, estranea alle tradizionali gerarchie dei “locali”, in grado di muoversi in maniera spregiudicata, senza i limiti della vecchia onorata società e della sua sub cultura, e soprattutto senza i tradizionali divieti, fissati dal codice della ’ndrangheta, di averecontatti di alcun genere con i cosiddetti “contrasti”, cioè con tutti gli estranei alla vecchia onorata società. Nuove regole sostituivano quelle tradizionali, le quali non scomparivano del tutto, ma che restavano in vigore solo per la base della ’ndrangheta, mentre nasceva un nuovo livello organizzativo, appannaggio dei personaggi di vertice che acquisivano la possibilità di muoversi liberamente tra apparati dello stato, servizi segreti, gruppi eversivi”.
Una struttura, mirante all’obiettivo di ampliare affari e potere dell’organizzazione, i cui appartenenti, secondo la regola voluta da Girolamo PIROMALLI (già boss di Gioia Tauro ed uno dei primi ispiratori della nuova struttura, noto come Mommo PIROMALLI), potevano persino tradire la propria 'ndrina se necessario per salvaguardare l'organizzazione santista”.
La seconda. Nell’ambito del processo celebrato in questo distretto giudiziario e scaturito dall’Operazione “Bellu lavuru 1”, è più recentemente emersa l’esistenza di una non ancora meglio delineata struttura indicata – nel corso di conversazioni ambientali intercettate – come “la base”; struttura composta da soggetti significativamente definiti dagli stessi indagati come “gli invisibili” cioè da affiliati la cui adesione alla ‘ndrangheta, anche per ragioni di maggiore tenuta della stessa organizzazione, è e deve rimanere ignota agli stessi altri affiliati. In altri termini, un’ulteriore strategia di auto-protezione verso attacchi esterni ed interni, cioè segreta persino rispetto agli ordinari affiliati ‘visibili’ ossia quelli dei quali è nota, tanto tra la popolazione quanto tra le forze dell’ordine, l’appartenenza all’organizzazione ‘ndranghetistica. Ecco, dunque, volendo tirare le fila del discorso, come il livello di segretezza costantemente perseguito (e raggiunto) dalla ‘ndrangheta, le sue peculiari dinamiche interne e le sue modalità operative, continuamente rimodulate [...]».
Richiamando quanto emerso nel procedimento “CRIMINE”, oltre che già in “OLIMPIA” ed in ultimo in “META”,il GIP conclude che: «Appare, pertanto, innegabile che le stesse autorità giudiziarie cui il tema è stato posto, vuoi indirettamente, come in Crimine, vuoi direttamente, come in Meta, si siano confrontate con il tema dell’esistenza di una componente riservata della ‘ndrangheta, che non è stata certo esclusa, alla luce di taluni indici probatori acquisiti, ma che, anzi, si è indicato dovesse essere suscettibile dei necessari approfondimenti investigativi».
«Citando la sentenza Meta si è detto già della "Cosa Nuova", descritta da vari collaboratori di giustizia come una sorta di organismo direttivo, posto al di sopra delle cosche, sorto nei mesi successivi alla fine della seconda guerra di mafia, formato dai rappresentanti delle più importanti famiglie, con attribuzioni riguardanti la cura dei rapporti con le altre organizzazioni mafiose storiche, una sorta di redistribuzione delle varie compartimentazioni della ‘ndrangheta.
Si è già evidenziato che la prova dell’esistenza di tale organismo non è stata conseguita a livello processuale (si leggano le sentenze Olimpia ed i riferimenti che sia nella sentenza Meta sia in quelle Crimine si operano al riguardo).
La lettura dei contributi offerti al riguardo dai collaboratori di giustizia rende chiaro, tuttavia, come, dopo la seconda guerra di mafia, fosse sorta l’esigenza di attuare, di attualizzare anzi, quanto era stato progettato molti anni prima, con la creazione de la Santa, che, per un verso, aveva raccolto i vertici riconosciuti dell’organizzazione dell’epoca e, per altro verso, aveva istituzionalizzato l’adesione ad essa, ergo all’organoprimario di direzione della ‘ndrangheta, di coloro i quali di quella medesima struttura criminale facevano parte in modo occulto.
Ebbene, le ricadute di tale procedere degli uomini posti alla direzione strategica della ‘ndrangheta sono necessarie per coglierne l’evolversi del modello gerarchico.Per lungo tempo, difatti, si è pensato che un tale modello, nell’organizzazione mafiosa calabrese,non avesse ragione di esistere, a causa della sua strutturazione familistica ed orizzontale.Ma è fin troppo facile obiettare, già sul piano logico, che non può non esistere una tendenza piramidale di strutture così complesse come la ‘ndrangheta, organizzazione parastatale inserita in un territorio in cui si pone direttamente come antagonista dello Stato e delle sue istituzioni».
«Il primo collaboratore di giustizia a rendere informazioni su questi temi è Giuseppe SCRIVA e, dopo di lui, già negli anni ottanta del secolo scorso, altri dicono di una ‘ndrangheta distinta in società sovrapposte l'una all'altra, per garantire al meglio il bene supremo dell’organizzazione, costituito dalla tutela delle sue componenti segrete».
Nella Sentenza del procedimento della DDA di Milano relativo all'operazione “ISOLA FELICE”, sono richiamate le dichiarazioni del collaboratore ZAGARI Antonio, che vengono ripercorse nell'Ordinanza dal GIP che conclude: «"Invisibile" è espressione che emerge, forse, per la prima volta e nella quale si coglie l’indicazione di una sorta di commistione fra ciò che è santa ed un alone di riservatezza(posto come la carica di invisibile sia correlata ad un capo che sia almeno Santista)».
E' quindi dagli inizi degli anni Settanta che, per quanto già accertato, «sono state poste le basi di una fase di cambiamento, segnata da azioni violente, cui si è correlata, appunto, una sorta di modificazione del sistema normativo della ‘ndrangheta». Elementi che veniva già prodotti nel procedimento “OLIMPIA” attraverso le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia. Da quelle contenute nel memoria di LAURO (1992) all'indicazione fornita da COSTA Gaetano, già capo-locale di Messina, nell'interrogatorio del 12 marzo 1994.
«“Fino alla metà degli anni settanta nel reggino, la carica di "santista" non veniva riconosciuta e il grado massimo all'epoca raggiungibile era quello di "sgarrista".
Fu Mommo PIROMALLI che, attesi gli enormi interessi che all'epoca sussistevano nella zona di Reggio Calabria (il troncone ferroviario, la centrale siderurgica e il porto di Gioia Tauro, etc.), al fine di imporre una sua maggiore autorità, e quindi di gestire direttamente la realizzazione delle opere pubbliche, si fregiò del grado di "santista" che, a suo dire, gli era stato conferito direttamente a Toronto, dove esisteva una importantissima 'ndrina. Il grado di "santa" poteva essere conferito solo a 33 persone e si poteva attribuire a nuovi soggetti solo in caso di morte di un altro "santista". 'Ntoni MACRI' da Siderno, che era uno "sgarrista" puro e un capo 'ndrina, insieme a Mico TRIPODO (poi ucciso al carcere di Napoli) non volle riconoscere l'esistenza della "società di santa", che definiva bastarda, anche perchè tra le regole di questa nuova società era prevista quella che consentiva di tradire ed effettuare delazioni pur di tutelare un santista. Ciò portò a dei contrasti anche sanguinosi che si conclusero con l'affermazione del PIROMALLI e del suo strettissimo alleato, Paolo DE STEFANO che fu, peraltro tra i primi, unitamente a Santo ARANITI, a raggiungere il grado di santista.
Poichè Mommo PIROMALLI era notoriamente massone, per qualificare e differenziare
ulteriormente la “società della Santa” da quelle minori, lo stesso introdusse, o comunque fece conoscere, la regola secondo cui ogni componente la società di santa poteva entrare a far parte della massoneria.
Quest'ultima circostanza mi venne rivelata da Peppino PIROMALLI, nel 1989, al Carcere di Palmi”.
“ADR. Successivamente alla eliminazione del MACRI' la "santa" prese piede in Calabria e venne quindi riconosciuta da tutta la organizzazione criminale. Io stesso venni investito di tale grado negli anni 1976-77.
L'imput per darmi la santa venne da Paolo DE STEFANO e da Santo ARANITI, i quali conferirono l'incarico a DRAGONE Totò di Cutro di "fedelizzarmi" e di costituire la "capriata". L'incarico venne dato al DRAGONE per espresso incarico del DE STEFANO che mi comunicò che in tal modo avrei avuto un'entratura anche nel catanzarese.
Conobbi così anche le regole della santa, alcune delle quali segrete e riservate soltanto ad alcuni santisti e cioè quelli più rappresentativi che all'epoca, ricordo, erano Paolo DE STEFANO, Santo ARANITI, Momo PIROMALLI, Natale IAMONTE, uno degli URSINO, Beppe PESCE, Bellino FOTI, Saro MAMMOLITI, Umberto BELLOCCO, Ciccio ALBANESE, Giuseppe PIROMALLI. Le regole segrete mi vennero date in "dote" da Peppino PIROMALLI e queste consistono in un solo principio che viene trasmesso oralmente tra coloro che hanno la "santa qualificata" e di questo principio non resta traccia scritta.
ADR. La regola segreta è la seguente:"conoscete la famiglia dei muratori? No ma all'occorrenza ce l'abbracciamo in pelle, carne ed ossa giurandole la fedeltà che ci verrà chiesta alla famiglia del sacro ordine dei muratori"
ADR. Contestualmente al conferimento della "dote" il nominativo del nuovo affiliato viene comunicato agli altri esponenti della stessa segreta organizzazione, sicchè conformemente al normale funzionamento delle logge massoniche coperte, il nuovo adepto non sa chi sono gli altri appartenenti alla struttura i quali invece ne hanno, singolarmente, cognizione.
ADR. Il PIROMALLI mi conferì la "dote" durante il passeggio nel carcere di Palmi e ciò nel periodo tra il giugno ed il luglio del 1989”.»
Prosegue quindi il GIP: «Una rivoluzione (più che un’evoluzione) come questa comportava, ovviamente, la possibilità che si giungesse ad una serie di condotte e di programmi criminosi particolarmente aggressivi e certamente fuori dagli schemi della società di sgarro.
Si coglie, quindi, il connubio DE STEFANO – PIROMALLI come momento fondante la creazione della Santa.
Il dato dichiarativo non rimane, ovviamente, isolato18 e, infatti, dopo COSTA, altri collaboratori di giustizia, le cui propalazioni hanno già avuto positivo vaglio in diverse sentenze, riferiscono in merito, confermando, ad esempio, come il grado della santa fosse noto solo a chi lo acquisiva».
Viene quindi ripercorso l'esame di GULLA' Giovanni nel processo “OLIMPIA”:
«“Il grado della "Santa" presenta una fondamentale peculiarità: è conosciuto solo ed esclusivamente alle persone che l'acquisiscono. Si creò una sorta di gruppo di mutua assistenza, nel senso che ogni situazione riguardante i santisti doveva essere risolta all'interno della stessa. E' importante sottolineare che la "Santa" rappresentò all'interno della 'Ndrangheta uno stadio "occulto", in quanto il relativo grado, come detto, era noto soltanto agli altri "santisti" e nessun rilievo occupava all'interno delle gerarchie della 'ndrangheta
Per fare un esempio, se uno 'ndranghetista si presentava ad altri 'ndranghetisti di un altro locale doveva palesare il suo grado, picciotto, camorrista, sgarrista, ecc,. non anche quello di santista eventualmente ricoperto, che poteva render noto solo ed esclusivamente agli altri santisti.
La "Santa" si spiega nella logica della "setta segreta": si è inteso creare una “struttura di potere” sconosciuta agli altri affiliati per ottenere maggiori benefici. Il santista può anche non avere forza militare, può non essere, ad esempio, un capo società; l'importante è che il "santista" abbia comunque una sua forza, ad esempio economica o politica, tale da poter apportare contributi o vantaggi in genere a tutta la struttura.Posso affermare con convinzione che la santa, come setta segreta, è l'esatto corrispondente della massoneria coperta rispetto a quella ufficiale.In questo senso mi constano rapporti interpersonali tra santisti e massoni di logge coperte e sovente i due gradi potevano cumularsi in capo alla medesima persona. Va chiarito che l'appartenente alla 'ndrangheta non può essere massone, ma questo vale per la 'ndrangheta "minore" e la massoneria pubblica. Ma come ho già detto la "santa" rappresenta una struttura segreta alla stessa "'ndrangheta" sicchè per essa le regole tradizionali valgono nei limiti in cui siano compatibili con il fine mutualistico a cui ho fatto riferimento. Pertanto, se esso fine può essere soddisfatto con l'ingresso di massoni nella struttura o viceversa, nessun ostacolo può essere frapposto...”»
Ancora, sempre da “OLIMPIA” quanto riferito da altro collaboratore, ALBANESE Giuseppe:
«“Risponde al vero che dopo gli arresti avvenuti a Montalto, all'interno della 'ndrangheta nacque una contrapposizione tra coloro che volevano mantenere i principi tradizionali del mondo criminale ed un gruppo che, invece, auspicava una nuova ristrutturazione dell'organizzazione. Bisogna infatti ricordare che in precedenza l'organizzazione si contrapponeva allo Stato e gli affiliati erano tenuti a vivere attraverso il cosiddetto "sgarro" o comunque attività soltanto illecite. I più prestigiosi fautori di questi principi tradizionali erano Don Antonio MACRI', tale ZAPPIA che presiedette la riunione di Montalto, Don Mico TRIPODO e Giuseppe NIRTA, ucciso recentemente. Nel gruppo che si contrapponeva emergevano, invece, i fratelli DE STEFANO, LIBRI Domenico, Santo ARANITI, Antonio CARACCIOLO, alcuni pianoti, tra i quali Mommo PIROMALLI, Saro MAMMOLITI e Giuseppe PESCE ed alcuni ionici, quali Pepè CATALDO, Turi AQUINO e Antonio PELLE.
Le regole della "Santa" erano rivoluzionarierispetto alle precedenti non soltanto perchè le formalità e i rituali si discostavano dal mondo tradizionale del crimine, ma perchè le regole erano molto più vicine a quelle della massoneria.
In realtà, la finalità essenziale della "Santa" era di costituire dei "gruppi armati"(che io definivo squadroni della morte), presenti sull'intero territorio della provincia di Reggio Calabria. Tali gruppi potevano essere in qualunque momento utilizzati dai capi della "Santa" su tutto il territorio nazionale per sostenere qualunque iniziativa tendente a destabilizzare l'ordine democratico dello Stato.
E' naturale che i capi della "Santa" erano tutte persone legate alla destra eversiva.
Tenga presente la S.V. che anche i rituali dell'organizzazione facevano riferimento a uomini dell'antica massoneria, quali MAZZINI, GARIBALDI e LA MARMORA; e non alle figure della 'ndrangheta tradizionale.
Peraltro la "Santa" si proponeva qualunque forma di illecito guadagno, la commissione di delitti che in passato la 'ndrangheta non consentiva (sequestri di persona e traffico di droga) e il santista aveva l'opportunità di avere contatti con esponenti delle istituzioni, contrariamente con quanto avveniva in passato.
Il santista poteva essere scelto tra persone provenienti da qualsiasi ceto sociale e ciò differentemente dal passato quando nella ''ndrangheta si accedeva da famiglie "onorate", cioè non coinvolte con le istituzioni o disonorate da fatti infamanti. Si diceva che un santista pur di salvare l'organizzazione poteva persino tradire cento camorristi o sgarristi. Vi furono persino degli esempi di tale rivoluzionario principio e divennero perfino usuali le soffiate alle Forze dell'Ordine con vere e proprie delazioni da parte dei santisti. Notorio era nell'ambiente carcerario che perfino i fratelli DE STEFANO frequentassero esponenti dei servizi segreti e delle Forze dell'Ordine.
In effetti per comprendere la collocazione della "Santa" all'interno della 'ndrangheta bisogna portate un esempio: all'interno di un grande contenitore quello della 'ndrangheta tradizionalecomposto da calabresi regolarmente affiliati ai vari locali e subordinati a delle regole comuni per tutti, si trovava un gruppo, proprio quello dei santisti, ulteriormente segretato, nel senso che il santista non era noto a tutti quelli che avevano gradi inferiori (uno sgarrista non conosceva nessun santista, mentre tutti i santisti conoscevano gli affiliati con grado inferiore).
Nei locali controllati dall'associazione vi erano quindi due organismi: quello più vasto e generale della 'ndrangheta ..., un vero serbatoio che consentiva alla "Santa" di scegliere i soggetti che potevano fare parte proprio di tale organismo”».
Ed ancora dalle dichiarazioni del collaboratore Giacomo LAURO:
«“Faccio presente che ho vissuto le vicende di Reggio Calabria sin dagli anni 1960, avendo un osservatorio privilegiato derivante dalla mia appartenenza alla cosca jonica rappresentata da Don Antonio MACRI' e da Antonio NIRTA di San Luca. In questo contesto si è sviluppata la mia attività di 'ndranghetista, nelle cui gerarchie ho raggiunto il livello di "consigliori".
E' vero che al termine della prima guerra di mafia (1973-1977) molti capi della 'Ndrangheta decisero di entrare in massoneria.
La storia criminale della provincia reggina si può articolare in due periodi in cui si atteggiò diversamente il rapporto tra la 'Ndrangheta e la massoneria.
Sino alla metà degli anni settanta le due entità erano vicine ma la nostra organizzazione era subalterna alla massoneria che fungeva da tramite con le Istituzioni. Già da allora comunque uomini della massoneria ricevevano un utile diretto percentualizzato, in riferimento agli affari che per conto nostro mediavano. Invero a Reggio Calabria vi era già una presenza massonica massiccia nelle Istituzioni tra i politici, imprenditori, magistrati, appartenenti alle Forze dell'Ordine e bancari, e pertanto vi era un nostro interesse diretto a mantenere un rapporto con essa.
E' evidente che in quel periodo eravamo costretti a delegare la gestione dei nostri interessi, con minori guadagni a personaggi molto spesso inaffidabili.
A questo punto capimmo che se fossimo entrati a far parte della famiglia massonica avremmo potuto interloquire direttamente ed essere rappresentati anche nelle Istituzioni.
Fu così che DE STEFANO Paolo, Santo ARANITI, Antonio, Giuseppe e Francesco NIRTA, Antonio MAMMOLITI, Natale IAMONTE, Giuseppe PIROMALLI ed altri entrarono a far parte della massoneria, e fu anche così che venne fuori l'idea di candidare alle comunali di Reggio Calabria l'avv. DE STEFANO Giorgio, cugino dell'omonimo Paolo e Pietro ARANITI, cugino del più noto Santo alle Regionali. In questo contesto si fecero pressioni sul Senatore Nello VINCELLI per candidare alle politiche Vico LIGATO, vicino alla famiglia DE STEFANO, e l'avv. Paolo ROMEO, con trascorsi in Alleanza Nazionale, nelle liste del Partito Socialdemocratico.
Per quanto detto è evidente che le famiglie 'ndranghetisti che ebbero una rappresentanza diretta in seno alle istituzioni ed avvalendosi del ruolo massonico gestirono con forza la cosa pubblica”..».
Prosegue il GIP: «Tanto, peraltro, permetteva di creare un primo gancio con la politica, impersonato dagli odierni indagati Paolo ROMEO e Giorgio DE STEFANO.
È, dunque, alla fine degli anni ’70 che si può individuare il momento in cui si realizza la frattura fra la ‘ndrangheta tradizionale, quella di ‘Ntoni MACRÌ, di Giuseppe ZAPPIA e di Mico TRIPODO, che aveva propugnato e sostenutola necessità che l’onorata società continuasse a vivere sulla base dello sgarro, mantenendosi lontana e, soprattutto, contrapposta allo Stato, e quella parte della ‘ndrangheta che avanzava, con nuove, ben diverse istanze.
Non è, quello, uno scontro dialettico ma uno scontro che si traduce in azioni violente, con la ‘ndrangheta tradizionale che viene, nei suoi capi, eliminata, finanche fisicamente.
La ‘ndrangheta, una certa parte della ‘ndrangheta,passa ad altro, quanto meno nelle sue direttive di azione, governate da strutture altre ed alte, che non disdegnano un’interazione obliqua con lo Stato.
È la nuova generazione di vertice che, pur formalmente ancorata ai valori di base dell’associazione di tipo mafioso di cui fa parte, si afferma, si apre alla trattativa, al compromesso, certa che, in quel modo, potrà non più solo contrastare lo Stato, le Istituzioni ma, in modo in prospettiva ben più remunerativo, finanche giungere a sedere allo stesso tavolo con lo Stato, le Istituzioni, i detentori del potere economico, asservendo al proprio programma criminoso questa sorta di nuova dimensione.
Non può che convenirsi con il P. M. richiedente, allora, quando evidenzia che si assiste – in definitiva – ad una sorta di mutazione della ‘ndrangheta che, certo, resta realtà criminale, ma, proprio per rafforzarsi, per crescere, per aumentare la sua potenza, si evolve, tentando di creare prima e di sfruttare poi circuiti relazionali sempre più estesi e, correlativamente, sempre più riservati.
Circuiti di cui essa dispone e che sfrutta, finendo, come ben si intende dalle parole di LAURO e, ancor prima, da quelle di COSTA, GULLA’ e ALBANESE, con tale ulteriore, riservata struttura,per divenire vero e proprio motore di un meccanismo in grado di minare lo stesso ordine democratico».
Procede quindi il G.I.P. nella valutazione del materiale probatorio e della richiesta di misura avanzata dalla DDA:
«Non appare allora in alcun modo censurabile la considerazione del P. M. secondo cui i collaboratori di giustizia di cui si è detto delineano l'esistenza di precisi legami e di costanti collegamenti con la “massoneria riservata”, finalizzati al perseguimento di una mirata strategia di progressiva "infiltrazione" negli ambienti politici, imprenditoriali ed istituzionali.
Tanto avviene, temporalmente, in epoca corrispondente al termine della prima guerra di mafia.
Si colgono, ancora,
- punti di collegamento fra ‘ndrangheta e mafia in un periodo che si sarebbe rivelato particolarmente inquietante per le sorti di questo Stato,
- un processo di trasformazione della ‘ndrangheta, che si riorganizza all’interno di un sistema criminale più vasto.
Ovvio è che dette cointeressenze permettono all’associazione criminale calabrese di ampliare il suo campo di azione, di allacciare relazioni più proficue e pericolose,che richiedono, però, di operare attraverso componenti, a questo punto indispensabili, che non devono destare sospetto e, pertanto, rimanere “riservate”.
È questo, secondo il P. M., il momento in cui si realizza il meccanismo di trasformazione che conduce l’organizzazione segreta in tal guisa costituita ad acquisire i connotati normativi dell’associazione di tipo mafioso.
In altri termini, la componente mafiosa svolge l’indispensabile funzione tipizzante del comportamento di astratto rilievo penale, facendo evolvere l’organizzazione lobbistica in un sistema criminale che presenta le caratteristiche dettate dall’art. 416bis, comma 3, C.p..
È la componente criminale che ai metodi tipici della lobby o della loggia segreta aggiunge la possibilità di avvalersi di metodi ben più penetranti, quelli mafiosi.
La necessità di operare in contesti istituzionali, o economici, comporta l’esigenza di non avere dei riferimenti “visibili” e riconducibili ictu oculi alle mafie tradizionali, data la loro evidente e riconoscibile illiceità.
Occorreva avere dei punti di riferimento segreti, occulti, riservati, unica strada per cui poteva passare il progetto di mimetizzazione della ‘ndrangheta.
Si viene a creare, nell’ipotesi ricostruttiva proposta, una sorta di dicotomia apparente fra parte visibile e parte occulta, riservata, in cui la componente mafiosa del sistema criminale del quale la ‘ndrangheta è parte opera, con i suoi metodi tipici, non più solo a beneficio delle sue articolazioni di base, ma, attraverso schermi soggettivi in grado di occultarne la presenza, a favore di un più ampio sistema criminale, la cui parte che rimane, appunto, occulta o riservata è quella da preservare, in quanto, a ben vedere, è proprio essa che costituisce il fondamento del potere effettivo dell’organizzazione mafiosa, che, in forza di questa nuova dimensione, risulta ampliarsi a dismisura.
Se letta in questo contesto, allora, trova giustificazione l’indicazione di ZAGARI Antonio in relazione al grado supremo di “associazione” (“quest'ultima vera carica riservata ai capi supremi”).
Osserva, al riguardo, il P. M., in termini che si condividono, che, per chiarire l’apparente disarmonia lessicale e comprenderne il reale significato, è necessario domandarsi che senso possa avere denominare il grado apicale con lo stesso sostantivo che definisce l’organizzazione criminale di tipo mafioso:la risposta offerta si àncora all’esistenza di una componente collegiale apicale che è associazione nell’associazione».
E quindi prosegue il GIP:
«Ed elemento di conferma di tale conclusione è, ad esempio, quanto afferma il collaboratore di giustizia BELNOME Antonino, in data 3 aprile 2014, quando afferma: «non esiste più la Ndrangheta come c’era prima... come c’era prima... non vogliono più che esista quella Ndrangheta di prima cioè ormai è sputtanata, quindi vogliono fare una situazione del genere perché nelle doti eccelse... bisogna salvaguardare e riconoscere solamente l’associazione di appartenenza... se lei è un santista deve riconoscere solo un santista e nessun altra associazione... né lo sgarro, né il Vangelo, nessuno!... quindi si crea una situazione come abbiamo appena accennato che si deve salvaguardare solo quella».
Non senza precisare che tale processo evolutivo
«era portato avanti da coloro che hanno doti eccelse nella Ndrangheta».
[…]
Questo il “progetto” che dal periodo della prima guerra di mafia fino agli anni ottanta del secolo scorso si snoda e determina, nell’ottica d’accusa, l’ascesa dei casati vincenti dei “santisti”, gli stessi che avevano avuto già la possibilità di sperimentare le segrete convergenze nel periodo dei boia chi molla.
Il progetto evolutivo della ‘ndrangheta doveva prendere forma, infatti, già in occasione del summit di Montalto, che doveva mettere a frutto proprio le convergenze con la destra eversiva,e, se esso, in quell’occasione, fallisce, diviene, alfine, qualcosa di finanche più pernicioso rispetto a quel che doveva essere.
Le massime espressioni della ‘ndrangheta, quindi, in quel momento, realizzano come sia necessario superare le regole tradizionali per assurgere al potere, per massimizzare i profitti illeciti, e, con una sorta di operazione di facciata, improntata al formale rispetto di quelle regole, necessaria a mantenere il controllo dell’indispensabile manovalanza, a quell’apparato normativo legata, si aprono a nuovi legami, indispensabili per realizzare la massima locupletazione possibile.
È così, pertanto, che Paolo DE STEFANO, e prima di lui suo fratello Giorgio, divengono i leaders di quella che, non a torto, il P. M. definisce una vera e propria multinazionale del crimine, valendosi dei rapporti di affari con la mafia e, dunque, con Stefano BONTADE a Palermo e con SANTAPAOLA e FERRERA a Catania, con la camorra e, dunque, con Raffaele CUTOLO a Napoli, nonché con altre agenzie criminali organizzate, quali quelle rispondenti a NARDI ed URBANI a Roma ed ai SACCA’ in territorio lombardo.
Andando ad esaminare le propalazioni di BARRECA [a tenore delle quali"COSA NOSTRA" era rappresentata nella loggia da Stefano BONTADE; questo collegamento con i palermitani era necessario perchè il progetto massonico non avrebbe avuto modo di svilupparsi in pieno in assenza della "fratellanza" con i vertici della mafia siciliana, ciò conformemente alle regole della massoneria, che tende ad accorpare in sé tutti i centri di potere, di qualunque matrice. Posso affermare con convinzione che a seguito di questo progetto, in Calabria la 'ndrangheta e la massoneria divennero una "cosa sola"], non sorprende, pertanto, che,nelle affermazioni di Giovanni BRUSCA in data 28 gennaio 2014, si operino specifici riferimenti ai rapporti tra i DE STEFANO e Stefano BONTADE: “ADR: A proposito di calabresi ricordo che mio padre mi disse che era stata una guardia carceraria calabrese, contattata da amici calabresi di Stefano Bontade, mi pare i De Stefano, ma potrei sbagliarmi che ...omissis.... Comunque i De Stefano erano legati a Cosa Nostra. Ricordo anche che Riina si interessò in Calabria presso i suoi amici per fare cessare gli attacchi sui cantieri della Lodigiani”.
Si consegue, pertanto, un evidente indizio confermativo della correttezza delle proposizioni del BARRECA nel delineare questo legame fra ‘ndrangheta, e, in particolare, i DE STEFANO, e la mafia siciliana».
Al quadro probatorio posto alla base dell'operazione “MAMMA SANTISSIMA” vi è anche quanto riferito dall'uomo di fiducia di MOLE' Rocco, reggente della cosca – sino alla sua uccisione nel 2008 –, che curava «i diversi investimenti economici, specie nell'ambito del Porto di Gioia Tauro». Si tratta del VIRGIGLIO Cosimo, coinvolto nell'inchiesta e procedimento “MAESTRO” e divenuto collaboratore di giustizia. In merito a quanto verbalizzato dal VIRGIGLIO il 29 aprile 2015, il GIP scrive:
«Il collaboratore, dunque, indica un sistema criminale molto più ampio, in cui riecheggiano – a distanza di circa venti anni – indicazioni analoghe a quelle operate da collaboratori come LAURO, BARRECA, ALBANESE, COSTA:
la ‘ndrangheta interagisce con componenti occulte,
si crea, guarda caso negli anni ’70, un... connubio criminalità organizzata di tipo mafioso e ambienti massonici... E politica...
in questo connubio è evidente il cooperare fra i DE STEFANO ed i PIROMALLI, in perfetta aderenza al dato che li vuole solo marginalmente attinti (ma non del tutto esclusi) dalle risultanze del procedimento Crimine.
Si coglie, pertanto, un’altra voce che spiega la natura e la complessiva ampiezza del sistema criminale calabrese, a far data dagli anni ’70: ciò in perfetta linea di continuità con le acquisizioni di cui alle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia di cui si è sinora detto.
E, si badi, qui si dice del versante del mandamento Tirrenico, sicché il dato collima con (e conferma) le propalazioni dei risalenti collaboratori che del mandamento di centro e dei DE STEFANO in particolare avevano riferito, in termini corrispondenti, quali fautori de la Santa.
Il processo evolutivo che vede, per un verso, i DE STEFANO, per altro verso, i PIROMALLI farsi promotori della trasformazione della ‘ndrangheta da società dello sgarro a struttura di potere si innesta in un terreno fertile, rappresentato dalle nervature di stampo prettamente massonico che caratterizzano certi ambiti della società calabrese e si vengono a realizzare le condizioni propizie per la creazione di interferenze fra ‘ndrangheta e ambiti massonici per determinare il controllo di interi settori dell’economia e delle istituzioni».
Ed ancora:
«Rilevante appare, infatti, la trascrizione degli appunti manoscritti dal SERPA, allegati al verbale del 13 gennaio 1996.
Si coglierà come essi descrivano il progetto criminale, pensato ed attuato dai DE STEFANO:
«Archi
Famiglia De Stefano
"... omissis... Gli argomenti che tratterò o meglio, tutte le dichiarazioni che saranno da me rese in questa fase verteranno sulla cosca De Stefano-Tegano-Libri in particolare, dalla quale si parte, per poi addentrarsi temporalmente in tutto il contesto "mafioso" di Reggio Calabria e Provincia, spaziando in tale e, oltre agli aspetti prettamente "mafiosistici", pur anche quelli, necessari quanto indispensabili per coltivare il giardino di affari economici-sociali (edilizia in particolare) che consentono alle cosche di sopravvivere.
In specifica la detta cosca, i suoi legami in terra di Calabria attraverso i più variegati personaggi politici, magistrati, appartenenti a forze di polizia nonchè persone legate al mondo del commercio, dell'industria e per ultimi i così chiamati "appartenenti alle cosche".
Nel rendere tali dichiarazioni è mia precisa intenzione evitare qualsiasi considerazione personale limitandomi alla cruda realtà degli episodi tutti, che andrò a narrare sia in ordine cronologico che saltellando tra i vari fatti per ovvie ragioni di esposizione trattandosi di fatti-episodi che vanno a concatenarsi in maniera cronologica per occorso e non sempre temporalmente ravvisandosi un ordine sparso; non appaia strano che episodi diversi tra di loro finiscano poi con l'essere dipendenti, precedenti o conseguenti al reale occorso.
Il "modus vivendi" e il "modus operandi" delle cosche Reggine specificamente legate al mondo della delinquenza (armi e stupefacenti) è talmente vasto, complesso ed intrigato da rendersi di difficile lettura a chicchessia e però può, chi ben conosce gli intrinseci comportamenti, indubbiamente, dare focalizzata lettura e giusta collocazione sia nell'ambito della cosca specifica sia in relazione a tutti coloro che a diverso titolo ne fanno o ne hanno preso parte.
Le persone che gravitano attorno alla cosca mafiosa a diverso titolo, appartengono ad ogni ramo del tessuto sociale, troveremo quindi il riparto "politico", "commerciale", "sanitario", "imprenditoriale" e non per ultimo il "mazzo"; testa di serie che indico in quelle tantissime persone che per volontà propria o per costrizione si inseriscono o vengono inseriti nella cosca.
Posso senz'altro affermare che in Calabria, contrariamente a quanto avviene in altri luoghi ove è presente il fenomeno mafia, l'arma più utilizzata ai fini dell'affiliazione è la "parola", infatti è sulla psiche che si lavora, l'adepto viene messo in uno stato di impotenza e di dipendenza mentale.
Giovanni, Paolo e Giorgio De Stefano, da sempre, con diverse attitudini, hanno avuto la capacità di piegare al loro volere tanti uomini di Calabria affiliandoli a loro nelle più disparate imprese; hanno saputo crearsi una forza propria a più scomparti (armata - politica - sociale - 'ndranghetistica) la cui caratteristica maggiore è sempre stata quella di avere una loro omogeneità di personaggi i quali facevano e disfacevano in un contesto operativo a "compartimento stagno"; da quì la vera forza dei De Stefano”.
[...]
Sentito il 26 luglio 1996, SERPA riferiva che «già nel periodo precedente al Summit di Montalto i fratelli DESTEFANO»,Giorgio e Paolo, padre di Giuseppe, «tendevano a conseguire un’autonomia propria che fuoriuscisse dalla mentalità» tradizionale della ‘ndrangheta, riconducibile a «Mico TRIPODO di Sambatello» ed a «MACRI' Antonio di Locri» (in realtà di Siderno).
Loro intento era dare vita ad «una forma di associazione 'ndranghetistica che si ponesse al di sopra delle cosche», espressione della specifica e collimante volontà dei DE STEFANO e della «destra eversiva», della cui creazione si doveva discutere in occasione del summit di Montalto del 1969.
Nonostante il fallimento di questo, il «defunto Giorgio DE STEFANO» si prodigò per la nascita della«nuova associazione 'ndranghetistica denominata "SANTA"», a cui capo «vi erano i DESTEFANO, Giorgio e Paolo» che «ne dettarono le regole». Essa si ispirava ai «modelli dell'eversione di destra ed alle Logge Massoniche» e ricomprendeva i «santisti», vale a dire «coloro che provenivano dall'ambiente prettamente mafioso» ed altri che, estranei a quell’ambiente, «venivano considerati alla stregua di Massoni», sicché «la struttura organizzativa della SANTA era in tutto similare a quella delle Logge Massoniche». La cooptazione dei «santisti» era prerogativa dei fratelli DE STEFANO, i quali valutavano solo «il carisma nonché l'apporto materiale (economico, logistico e capacità di predominio sul territorio)», ergo la sua capacità di portare utili ai DE STEFANO negli ambiti che loro interessavano.
I santisti, quindi, si ponevano «ai vertici dell'organizzazione» ed era loro riconosciuta la possibilità di «fare gli "infami", facendo catturare dalle forze dell'ordine consociati di livello inferiore e di altre organizzazioni mafiose. Ciò evitò la perpetrazione di diversi omicidi, infatti, molti, invece di essere assassinati furono fatti arrestare».
L’ottica, ovviamente, era quella di salvaguardare la permanenza e la stabilità del vincolo associativo.
Infatti, i santisti «risolvevano i problemi della cosca d'appartenenza in forma autonoma» e, quando «vi erano problemi che interessavano altre cosche, per dirimerle, si rivolgevano al Santista dell'altra cosca» e di tanto era «informato il gruppo dirigenziale della Santa che non erano altro che i fratelli DE STEFANO». Il potere dei DE STEFANO era tale che, quando «vi era necessità da parte degli altri santisti di comunicare con i DE STEFANO, erano i primi che si portavano direttamente dai DE STEFANO ai quali veniva esposto il problema e ove era possibile risolverlo senza passarlo "per conoscenza" agli altri santisti, erano gli stessi DE STEFANO che disponevano in merito». In caso contrario, invece, «si convocava la SANTA», parimenti convocata quando, a loro discrezione, i DE STEFANO lo ritenevano necessario.
Le riunioni «si verificavano nel territorio di ARCHI che era quello ove predominava la cosca DE STEFANO» e senza preavviso, tant’è che «quando i DE STEFANO decidevano di fare una riunione della SANTA» inviavano «presso tutti i SANTISTI loro uomini di fiducia che li prelevavano e li accompagnavano nel luogo stabilito per l'incontro».
La Santa si caratterizzava per essere «un'organizzazione estremamente segreta» ed il vincolo di segretezza produceva i suoi effetti solo verso l’esterno, tanto che gli stessi «componenti delle varie 'ndrine non sapevano che i loro capi facessero parte della SANTA» e, sempre per volontà dei «fratelli DE STEFANO», che«gestivano la SANTA»,«ogni Santista non era a conoscenza di tutto quanto la SANTA facesse» ma solo «di quello che a lui interessava».
Quanto ai partecipi alla Santa, il collaboratore indicava, ovviamente, «i fratelli Giorgio e Paolo DE STEFANO» e, ancora,«...Antonio ARENA da Isola Capo Rizzuto, Domenico MAESANO che era uno tra i più giovani sempre di Isola Capo Rizzuto, i fratelli Girolamo e Giuseppe PIROMALLI da Gioia Tauro, Antonio MOLE' da Gioia Tauro, SaverioMAMMOLITI da Castellace, Vincenzo FACCHINERI (successivamente declassato per indegnità) da Cittanova, Rocco ALBANESE da Cittanova, i NIRTA da San Luca (gli Scalzone/la Maggiore) e con questi vi erano anche i PELLE ed i PAPALIA di Platì, chiudeva tale schiera Santo ARANITI il quale non era in totale accordo con i fratelli DE STEFANO».
Fonte, diretta, delle sue conoscenze sulla «Santa» era stata direttamente un DE STEFANO.
Tali notizie, infatti, egli aveva appreso «direttamente da Paolo DE STEFANO durante un periodo di comune detenzione presso il carcere di Reggio Calabria, subito dopo la sua estradizione dalla Francia»
«Nel verbale del 10 settembre 1996, poi, coerentemente rispetto alle pregresse affermazioni, SERPA ribadiva che «la Santa non era altro che il vertice della cosca DE STEFANO e nacque subito dopo il summith di Montalto», precisando che «a Montalto doveva essere sancita l'alleanza tra l'organizzazione mafiosa calabrese e il gruppo eversivo di destra presente allo stesso summit e guidato dal principe BORGHESE» e che l’intervento delle forze dell’ordine non aveva permesso disiglare alcun «accordo».
Decisi a realizzare il loro obiettivo, comunque, «i DE STEFANO pensarono di dar luogo a questa nuova forma di organizzazione cercando di trovare alleati potenti all'interno della malavita calabrese». Importante è comprendere chi di questa associazione faceva parte:
«- sulla Piana: le famiglie PIROMALLI, MAMMOLITI,
- sulla Jonica: IAMONTE, MAZZAFERRO, CATALDO.
- Aderirono altresì i GARONFOLO di Campo Calabro, in rappresentanza della famiglia LABATE della zona sud di Reggio Calabria ed i NIRTA di San Luca.
- Nel catanzarese la famiglia ARENA di Isola Capo Rizzuto».
Altro dato di tutto interesse: «i vari componenti» della «Santa» versavano «una percentuale dei guadagni dell'attività illecita posta in essere da ciascuna 'ndrina» e la «Santa», in proprio ed «in persona dei fratelli DE STEFANO»,attraverso lo schema estorsivo, assoggettava «svariate ditte ed imprese di appalti pubblici e privati», ponendosi a protezione da «eventuali altre cosche desiderose di consumare in danno loro estorsioni ed altro».
Ora, qui basta rammentare, a volo d’uccello, come la conferma di una sorta di prassi
perpetuata nel tempo si colga nelle similitudini che tale meccanismo operativo rivela rispetto a quello che è emerso nell’ambito della gestione delle estorsioni descritte nelle sentenze di cui al procedimento Meta.
SERPA, poi, aggiungeva che, per le «ditte provenienti da fuori Regione», soprattutto per «quelle che partecipavano a gare di appalto per lavori pubblici» vi era quasi «un occhio di riguardo» qualora «interessavano elementi politici calabresi presenti in Roma».
In questi casi, esse «venivano avvicinate da personaggi qualificati».Tra costoro, oltre agli Avvocati Tommasini, Abenavoli e Foti, venivano indicati l’«ex On. Paolo ROMEO» e l’avvocato «Giorgio DE STEFANO», oltre a «Piero LABATE, ucciso in Milano da Saverio MORABITO su incarico di Paolo DE STEFANO» e del quale «notori erano i suoi contatti con apparati deviati dello Stato collegati ai DE STEFANO ed ai IAMONTE» ed altri.
Si indica, ancora, come fossero costoro tutti «organicamente»inseriti«nella Santa», con una propria«zona di influenza»: DE STEFANO «in Reggio Calabria e Roma», ABENAVOLI«nell'area del Catanzarese», FOTI «nella zona Jonica e della Piana di Gioia Tauro» e TOMMASINI «in Reggio Calabria».S i aggiungeva, ancora, come il «vero e proprio "consigliori" della cosca DE STEFANO» fosse l’avvocato «Emidio TOMMASINI», al pari dell’«avvocato PaoloROMEO», i quali erano soggetti che «hanno sempre vantato solidi relazioni con personaggi di spicco della mafia siciliana».
Ancora, «lo stesso Paolo DESTEFANO» aveva riferito a SERPA che, relativamente «alla prima guerra» di ‘ndrangheta, «l'uomo "chiave" per la pace fu proprio Paolo ROMEO che contattato dal mondo mafioso siciliano che non gradiva quanto accadeva in Reggio Calabria, fece da tramite tra la mafia siciliana e la cosca DE STEFANO».
Oltre a quanto riferitogli da DE STEFANO Paolo, il collaboratore apprese «le notizie sugli avvocati» di cui sopra «durante il periodo di semilibertà che ho trascorso, se mal non ricordo, dal 1982 al 1984 presso lo studio dell'avvocato ABENAVOLI del quale ne ero il segretario».
Precisava, ancora, il collaboratore che, «quando io parlo del casato DESTEFANO, oltre ai 4 fratelli DE STEFANO, mi riferisco soprattutto all'avvocato Giorgioed ancora alle famiglie federate dei LIBRI, TEGANO, SARACENO, MARTINO, BARBARO, FRAGAPANE, LOMBARDO, CAPONERA, POLIMENI ed altri».
Altra precisazione riguardava la circostanza che, «tra i santisti vi erano anche appartenenti al casato NIRTA di San Luca», che, nella persona di «AntonioNIRTA (denominato "u du nasi")», hanno avuto «un rapporto molto stretto» con «il Colonnello dei Carabinieri DELFINO»26.
Il modello organizzativo della «Santa» voluto dai DE STEFANO, dunque, rappresenta l’evoluzione della ‘ndrangheta tradizionale.
Modello che sarebbe nato proprio dall’«accordo» con «il gruppo eversivo di destra» e che avrebbe rappresentato, con tutta evidenza, la base della primazia dei DE STEFANO in seno alla ‘ndrangheta, loro derivata proprio dalla «Santa».
Sempre nel corso dell’interrogatorio del 10 settembre 1996, SERPA riferiva che «massoni», ovvero soggetti in qualche modo correlati alla «santa» ma che non avevano estrazione criminale, erano «i fratelli Giovanni e Marco PALAMARA, Ludovico LIGATO, GENOESE ZERBI, l'onorevole Franco QUATTRONE, l'onorevole Pietro BATTAGLIA, il senatore VINCELLI ed il Ministro MISASI, nonché l'imprenditore MAURO titolare dell’omonima azienda di caffè, quello assassinato, Amedeo MATACENA, il professore PANUCCIO e suo fratello ALBERTO, l’imprenditore Domenico COZZUPOLI ed infine il notaio Pietro MARRAPODI... il Questore Santillo», i «funzionari di Polizia: Gaudio e Celona» e gli «ufficiali dei Carabinieri: Puglisi e Valentini».
Soggiungeva, quindi, il collaboratore, per come riferitogli sempre da DE STEFANO Paolo e dall’avvocato ABENAVOLI (il quale, peraltro, gli confidò la sua appartenenza aduna non meglio precisata «loggia massonica reggina»): «Tutti questi personaggi sono solo una parte di quelli che hanno avuto rapporti di collaborazione con la “SANTA”, infatti con questa organizzazione mi risulta abbiano avuto rapporti banchieri e Magistrati operanti a Reggio Calabria ed a Roma, di cui però sconosco i nomi».
Elementi di conferma alle dichiarazioni del SERPA emergono dalle dichiarazioni di LAURO Ubaldo Giacomo, sentito dalla DNA il 16.11.1964. Nell'esame delle stesse compiuto dal GIP, lo stesso scrive: «L’importanza delle sue dichiarazioni si evince nel momento in cui esse corroborano le propalazioni del SERPA sia in ordine alla sussistenza del patto fra destra eversiva e ‘ndrangheta, sia sullo specifico ruolo che, a tal fine, doveva avere il summit di Montalto del 1969. La complessiva lettura di quelle dichiarazioni, peraltro, fa ben intendere il contesto complessivo nel quale sono maturate le vicende prodromiche alla creazione della Santa».
Il GIP ripropone ampiamente le verbalizzazioni del LAURO. Nell'ambito di questa analisi, tra l'altro, scrive:
«Egli narrava, quindi, dell’esplosivo fattogli avere per un attentato a dei piloni e ad un treno, precisando che
... Quindi tutta la ‘ndrangheta o almeno quella ‘ndrangheta che era sollecitata, che aveva degli interessi, si è unita all’eversione ...all’eversione nera ...
...
Sulla Jonica, sulla Jonica vi posso dare per scontato l'intervento dei CATALDO, a favore di Reggio capoluogo ma non per politica, proprio per 'ndrangheta, così come vi posso dare per scontato l'appartenenza del clan dei PIROMALLI-MAMMOLITI sulla tirrenica,in più anche i VRENNA di Crotone e i MAZZAFERRO di Gioiosa Jonica erano vicino ai DE STEFANO, anche perchè in quel preciso periodo lavoravano assieme come cosche e gestivano un traffico di sigarette che veniva sbarcato non solo nella zona di Crotone - Isola Capo Rizzuto, ma anche nella zona della locride, mi riferisco tra Gioiosa e Locri e qualche volta nella zona di Ferruzzano e di me .. e di Bova Marina, e di Bova Marina. Poi queste ....queste comunità nel traffico, .. queste alleanze nel traffico delle sigarette hanno fatto si che i DE STEFANO mettessero per primi le bombe contro i POLIMENI, cognati del Domenico TRIPODOe quindi scoppiassero ..la guerra, guerra che è stata vinta perchè.. perchè anche i NIRTA come i MORABITO di Africo si sono alleati con i DE STEFANO, in più c'era tutta la tirrenica dai PESCE ai BELLOCCO, ai MAMMOLITI ai PIROMALLI,...»
Ed ancora, oltre al narrare di bombe e fornitura di esplosivo all'estrema destra eversiva, in particolare soggetti di Roma, “fascisti ex appartenenti ad Avanguardia Nazionale”, della visita e dei rapporti con Julio Valerio BORGHESE, dei rapporti con DELLE CHIAIE. Rapporti principalmente tenuti con i DE STEFANO e con l'Avv. Paolo ROMEO.
Ma il LAURO era un fiume in piena e nelle sue dichiarazioni entrava anche nel merito dell'omicidio di Antonio D'AGOSTINO e quello del giudice OCCORSIO.
In merito al rapporto con l'estrema destra eversiva il GIP scrive ancora:
«Orbene, per quanto si evince dal contenuto delle sentenze emesse a loro carico dalla Corte d’Assise d’Appello di Reggio Calabria, nei procedimenti che hanno interessato i due odierni principali indiziati, DE STEFANO Giorgio e ROMEO Paolo, si coglie lo sforzo defensionale atto a neutralizzare il portato compromettente del legame della ‘ndrangheta, rectius dei DE STEFANO, con la destra eversiva, di uomini riconducibili alla quale il SERPA riferisce la presenza al summit del 1969 a Montalto. Quel summit in cui lo stesso LAURO evidenzia dovesse trattarsi la questione del patto con la destra eversiva.
Ma basti, al riguardo, rinviare alla lettura delle considerazioni della Corte d’Assise d’Appello in merito alle tesi difensive formulate nell’interesse del ROMEO, specie con riguardo all’assistenza alla latitanza del FREDA, per avere contezza di come questi sforzi siano risultati vani, sebbene diretti ai fini (con le odierne cognizioni verrebbe quasi da dire limitati) che quell’analisi processuale richiedeva.
Analogamente dicasi, nel contesto di una sentenza che può definirsi certamente attenta alle postulazioni difensive, quale quella resa dalla Corte d’Assise di Appello di Reggio Calabria, nel procedimento Olimpia, quanto alla posizione del DE STEFANO Giorgio.
E, peraltro, non può stupire, a questo punto, che, fra i partecipi alla Santa, il collaboratore SERPA indichi soggetti che, nelle dichiarazioni di LAURO Ubaldo Giacomo, sono indicati come i primi sodali dei fratelli Giorgio e Paolo DE STEFANO nel traffico di sigarette»
Altro importante elemento di riscontro alle dichiarazioni di SERPA risulta quanto emergeva nelle verbalizzazioni di altro collaboratore di giustizia, COSTA Gaetano. In merito ricorda il GIP:
«Nel verbale del 29 febbraio 1994, riferiva che, per effetto della «riorganizzazione», si erano cementati i rapporti con «Cosa Nostra siciliana e con la nuova Camorra», «per la salvaguardia dei processi in corso e per quelli già celebrati, assicurare le ricchezze accumulate, gestire di comune accordo i rapporti con massoneria, politica, ed istituzioni deviate». Nel verbale del 12 marzo 1994, poi, COSTA affermava che «Antonio MACRI' si opponeva al riconoscimento della "Santa"» poiché le «nuove regole» imponevano al «santista di tradire membri della propria "famiglia" allo scopo ultimo di salvaguardare la sua organizzazione criminale. In conseguenza di ciò il santista era autorizzato anche ad avere rapporti con le forze dell'ordine. Il santista poteva altresì mantenere contatti, anche di affari, con le varie istituzioni pubbliche statali, sicché veniva istituzionalizzato il compromesso politico giocoforza destinato a (de)generare nella corruzione»: infatti, «la Santa prese piede in Calabria» solo dopo l’«eliminazione del MACRI’» e venne «riconosciuta da tutta l’organizzazione». Lo stesso collaboratore venne «investito di tale grado negli anni 1976 – 77» su disposizione di «Paolo DE STEFANO e Santo ARANITI». Altri «santisti» erano certamente «Mommo PIROMALLI, Natale IAMONTE, uno degli URSINO, Peppe PESCE, Bellino FOTI, Saro MAMMOLITI, Umberto BELLOCCO, Ciccio ALBANESE, Giuseppe PIROMALLI».
[…]
Escusso dalla D. D. A. di Palermo il 16 settembre 1994, poi, il collaboratore dichiarava che «fu Mommo PIROMALLI che, attesi gli enormi interessi che all'epoca sussistevano nella zona di Reggio Calabria (il troncone ferroviario, la centrale siderurgica e il porto di Gioia Tauro, etc.), al fine di imporre una sua maggiore autorità, e quindi di gestire direttamente la realizzazione delle opere pubbliche, si fregiò del grado di santista che, a suo dire, gli era stato conferito direttamente a Toronto, dove esisteva una importantissima 'ndrina. Il grado di santa poteva essere conferito solo a 33 persone e si poteva attribuire a nuovi soggetti solo in caso di morte di un altro santista... Poichè Mommo PIROMALLI era notoriamente massone o, comunque, vicinissimo ad ambiente della massoneria, per qualificare e differenziare ulteriormente la società di santa da quelle minori, lo stesso introdusse, o comunque fece conoscere, la regola secondo cui ogni componente la società di santa poteva entrare a fa parte della massoneria».
Nel verbale del 11 ottobre 1994, COSTA precisava, ancora, di non conoscere «personalmente l'avv. Giorgio DE STEFANO» del quale, però, aveva avuto notizie «all'interno del carcere da personaggi come SCHIMIZZI Giuseppe, LIBRI Pasquale, LIBRI Domenico, PIROMALLI Giuseppe ed altri ancora, tra cui MANCUSO Giuseppe, MUTO Francesco»,i quali gli riferirono che «dopo la morte di Paolo DE STEFANO, Giorgio DE STEFANO divenne la mente dei destefaniani, e lo stratega della guerra di mafia... Tutti costoro parlando di lui lo chiamavano "compare Giorgio l'avvocato". ....Giorgio DE STEFANO ha stretti rapporti con tutta la 'ndrangheta calabrese e in particolare con i PAPALIA e i BARBARO di Platì, con PIROMALLI Giuseppe, nonchè con cosa nostra siciliana, in particolare con Mariano AGATE, Luca BAGARELLA...omissis....».
In più, nel 1992, RASO Girolamo,durante la comune detenzione nel carcere di Cuneo, gli riferì che «l'avv. DE STEFANO ebbe un ruolo determinante nelle trattative per la pace e tuttora è uno dei componenti della struttura di vertice della "cosa nuova". Di questa struttura... facevano parte i BARBARO, PAPALIA, MAMMOLITI di San Luca, gli ALVARO, PIROMALLI, PESCE, i DE STEFANO che rappresenta(no) anche i TEGANO ed i LIBRI, (gli) URSINO e qualche altra famiglia di cui mi sfugge il nome. Aggiungo pure(i) MANCUSO di Limbadi, i MUTO di Cetraro e gli ARENA di Isola Capo Rizzuto».
Tali dichiarazioni, dunque, oltre a collimare, nel loro nucleo essenziale, con quelle del SERPA, indicano la nota posizione di assoluto rilievo dell’Avvocato Giorgio DE STEFANO in seno alla cosca DE STEFANO, nonché i suoi plurimi collegamenti con esponenti di altre cosche, fondamentali nel panorama delinquenziale calabrese, come i PIROMALLI ed i BARBARO – PAPALIA di Platì».
Tra i contributi portati dai collaboratori di giustizia sulla nascita della “Santa”, che il GIP ripercorre, vi è, tra gli altri, quello relativo alle dichiarazioni di ALBANESE Giuseppe. Lo stesso, oltre alle verbalizzazioni negli interrogatori fece pervenire ai magistrati un memoriale nel quale – come ricorda il GIP – sono «presenti chiarissimi riferimenti alla Società di Santa»:
«“...omissis...
REGGIO CALABRIA - ANNO 1968 / 1969
Con l'arresto di centinaia di mafiosi riuniti in polsi Aspromonte (RC) retata condotta dal Questore Emilio Santillo, mettendo in luce codici e leggi della onorata società: ndranghtista calabrese, alcuni degli anziani volevano mantenere quel tipo di organizzazione segreta, che di segreto non c'è più niente. In quanto molti di essi avevano svelato, rilevato le modalità della organizzazione e le sue leggi ecc. ecc. nel frattempo prendeva piede di formazione operativa una società "setta" denominata "A MAMMA SANTISSIMA" (A SANTA). La prima formazione era a capo Santo ARANITI con Paolo De Stefano e Domenico LIBRI. Araniti, è stato il primo a dichiarare guerra a Domenico Tripodi ecc. ecc. boss incontrastato sino a quel tempo della vecchia mafia. Moltissimi si sono allontanati dai boss di vecchio stampo, riassociandosi ai Araniti, De Stefano, Libri, e SANTA. Si sono associati a costoro in quanto la SANTA aveva dei programmi delittuosi più vantaggiosi, più lucrosi, più industrializzati e meglio organizzati con promesse con maggior guadagno per tutti e maggior possibilità di controllare il processo. I loro programmi uscivano dalle vecchie regole dell'Onorata Società, in quanto la SANTA aveva dei propositi come sequestri di persona, traffici di droga, traffico di tutto ciò che portava guadagno. Inoltre lo sterminio totale di chi non si informasse dei loro programmi con la vecchia ndrangheta. In quel tempo erano vietate severamente tutte queste cose, la SANTA ci ride sopra a questi delitti e reati. L'importante è che si controlli che ciò che si vuole controllare con l'affiliazione, reclutamento in qualsiasi ceto sociale o professionale.Non esiste voto l'importante è che il nuovo fratellizzato alla SANTA è a essi facile l'interesse di tutti e della SANTA. Questa setta negli anni 1970 aveva dei doppi fini che col tempo perse un pò di quella finalità che erano al servizio del potere occulto (P2) aveva compiti di squadrone della morte, diretti da Giorgio De Stefano ecc.
...omissis...
Fra tali processi per la prima volta alcuni imputati accennavano alla MAMMA SANTISSIMA, uno in particolare invece questo imputato fu fatto subito zittire e fatto ritrattare passando per pazzo, con pressioni mafiose, con tanto di manicomio. Un altro imputato processo MATACENA si è suicidato dopo aver ammesso qualcosa, si chiamava BARRECA Consolato. I giornali definirono i MAMMA SANTISSIMA pezzi da 90 senza approfondire la ricerca del fenomeno nuovo che si stava creando. Senza neanche approfondire quel salto di qualità criminale e antisociale. Nessuno degli studiosi di tali problemi antidranghetisti per la Calabria è da moltissimi anni che ormai e cosa folcloristica, ma sempre valida come sistema di aggregazione e di reclutamento. Esportando in altre città il vecchio sistema dell'Onorata Società di camorra, aiutando in tale formazione camorristica dove prima non c'era non esisteva come fenomeno organizzato. Una volta che il nuovo affiliato fa parte e così tanti altri. Dopo si pensa LA SANTA a selezionare gli elementi più validi e li inquadra nella SANTA fratellizandoli. Una volta che tizio fù fratellizato alla SANTA e ne fa parte, tiene nascosto il suo salto di qualità al gruppo originale che ne faceva parte. Pur continuando a frequentare loro e lavorare con entrambi. In caso di scontro si affianca con i Santisti come lui scontrandosi con il suo gruppo originale, così gli più facile combatterli, in quanto lui li combatte dall'interno di essi, e i suoi vecchi associati se ne accorgeranno del tradimento quando è troppo tardi perchè saranno uccisi ecc. Se si guarda bene fin d'ora chi sono stati colpiti e sequestrati si nota una grandissima percentuale di reati commessi contro persone impegnati contro la Mafi e impegnati politicamente in forze sociali antifascismo. Coloro che pure essendo ricchi e non sono stati toccati evidente che una parte di essi versano denari alla SANTA e altri lavorano i proventi sporchi della SANTA.
A nome di Garibaldi, Mazzini, La Marmora, formo la società SANTA che è presieduta da tre persone: GARIBALDI MAZZINI LA MARMORA. Garibaldi al centro MAZZINI a destra e LA MARMORA a sinistra, fanno entrare il nuovo affiliato, gli chiedono di che cosa va in cerca, gli risponde: cha va in cerca di onore fedeltà e sangue, gli dicono che sei un cannibale, gli risponde: no, sono un raccoglitore di sangue una vena da un fratello esce e nella mia entra. Gli pungono tre dita con un ago, il pollice, l'indice, e il medio e li racchiudono tra essi, gli dicono che suo padre è il sole, la madre la luna e di mestiere fa il carrettiere. E che il numero è il 24. Che è un numero fisso convenzionale di tutti i Santisti. Quando si forma la SANTA, la formano tre persone e ci partecipano tuti i Santisti di zona o città ecc. sul tavolo ci sta un fucile un bicchiere con acqua e un pò di veleno, un limone un ago d'oro e un pugnale. I santisti hanno il voto di eleggere il Capo Santista o Capo criminee all'ora ogni volta ogni santista potrà venire eletto a capo, ma di solito detiene questa carica gerarchica di capo - Santista e così il capo crimine, i gruppi più forti. Il capo crimine ha il potere decisionale su tutti i capi santisti e su tutte le famiglie cosche santiste in Italia ed estere). In caso di diverbi e guerre a funzione di il capo crimine di giudice di omertà e deve essere imparziale cosa che non è mai, in quanto parteggia sempre per la cosca più forte. Tutte le famiglie di cosche ne rispondono al crimine. GARIBALDI comanda il gruppo di 15 persone, MAZZINI il gruppo di 10 persone, LA MARMORA il gruppo di 15 persone. Il santista fratellizzato ha giurato fedeltà alla SANTA e fratelli perchè così si chiamano anche se per confondersi con la vecchia MAFIA si dicono compari. Il Santista non potrà essere giudicato se manca, deve da solo giudicarsi se un tradimento si dovrà avvelenare o suicidarsi, diversamente verrà ucciso dai santisti nella stessa setta ci sono i cappucciati costoro hanno compiti di sicari (Killeraggio) non sempre sono santisti, potrebbero essere ovunque e dovunque e ne risponde solo al Capo SANTA a lui altri capi. A loro volta conosceranno i loro cappucciati, inoltre c'è il vangelo costoro gestiscono il crimine in tutte le loro forme non altro che il sindacato di tutta l'organizzazione è ha il controllo di tutte le ramificazioni della società segreta che opera nella vita sociale del paese e viene presieduta dal capo evangelista. Capo santista è capo cappucciat e i vangelisti gli viene incisa una crocetta sulla spalla non sempre rimane la cicatrice o il segno, dato che è una formalità. Come segno di riconoscimento si toccano la spalla con la mano oppure incrociano le braccia sulla fronte in segno di croce di Sant'Andrea, e come numero di riconoscimento hanno il 25, comunemente si dicono ho la croce d'oro. La formano Giuseppe Giusti, Carlo Magno, Giuseppe Forma, Cognomi convenzionali e storici. I santisti si riconoscono da loro stessi con altri stringendosi il mento come dire mi accarezzo la barba (GARIBALDI) nei presenti ci sta un altro santista fa lo stesso segno per far capire che non è da solo, se poi quello non è convinto gli chiede, chi è il padre, se quello gli risponde il vero nome del padre vuol dire che non è niente, diversamente deve rispondere che il padre è il sole”»
In merito ai riscontri alle dichiarazioni viene riportato dal G.I.P., nell'Ordinanza, quando indicato nella specifica Informativa depositata il 15 febbraio 2016, concludendo sul punto: «Appare, pertanto, evidente, alla luce di quanto, come sopra, refertato dalla P. G., che la credibilità generale dell’ALBANESE sia elevata, al pari del livello della sua attendibilità intrinseca in ordine all’oggetto del presente procedimento cautelare».
Prosegue quindi il G.I.P.: «Il quadro che, complessivamente, se ne trae riguarda la circostanza che i DE STEFANO hanno, in buona sostanza, ideato e creato una «struttura mista», la cui composizione attingeva e a soggetti direttamente espressione di ambienti di ‘ndrangheta e a soggetti che, estranei a tali ambienti, vi potevano sedere in quanto considerati quali massoni.
Struttura mista, questa, che doveva curarsi delle relazioni con politici, pubblici funzionari, professionisti, massoni, con il fine di infiltrare le amministrazioni e gli enti pubblici ed arrivare al controllo degli stessi, il tutto in meccanismi che si sarebbero valsi della corruttela come fine, anche mediato, di realizzazione del programma criminoso.
Insomma, la struttura mista di cui si dice è pur sempre fondata su una essenziale matrice ‘ndranghetista, posto che di essa fanno parte ‘ndranghetisti, ma finisce con l’avere ruolo sovraordinato rispetto alle cosche ed all’operatività, per così dire, tradizionale delle stesse: operatività tradizionale la cui necessità, tuttavia, è in re ipsa, posto che esse sono il sostrato indispensabile per garantire non solo l’esistenza ma anche la proficua operatività della Santa.
Leggendo le parole dei collaboratori che ne hanno parlato, peraltro, si coglie come la segretezza della Santa è garantita dal fatto che essa sovrintende all’operato delle singole cosche e può incidere su di esse, sebbene esse stesse ne ignorino l’esistenza.
Tanto spiega come la Santa abbia mantenuto questa posizione di sovraordinazione alle singole cosche.
Di più, gli stessi santisti conoscono solo quanto è necessario, quanto viene deciso dal vertice che conoscono e le stesse procedure di cooptazione ed investitura sono tali che la riservatezza sia mantenuta estrema, al punto che non solo le singole cosche ignorano i componenti la Santa ma anche che questi possano ignorare altri appartenenti ad essa».
UN PUNTO FERMO: IL LEGAME CON L'ESTREMA DESTRA EVERSIVA
Quanto emerso dalle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia LAURO e BARRECA, risulta univo anche rispetto a questo particolare aspetto che porta il G.I.P. a ribadirlo:
«Il collegamento fra la cosca DE STEFANO ed il mondo dell’eversione di destra, legame verosimilmente figlio di una passione verso quest’area politica dell’antico capo bastone dei DE STEFANO, si perpetua nel tempo.
Esso si doveva articolare attraverso il progetto che, secondo SERPA e LAURO (verbale del 16/11/1994), andava illustrato a Montalto nel summit del ’69, bloccato dall’irrompere delle forze di Polizia, si perpetuava con l’istituzione della santa, proseguiva con la creazione di questa struttura mista, in parte formata da esponenti della ‘ndrangheta, in parte da massoni, o nobili, per dirla con don Mico LIBRI secondo le sue parole per come riportate dal collaboratore FIUME.
Tutto ciò con un primo sfondo (che, per ossimoro, verrebbe da definire sinistro): il collegamento con l’eversione di destra, tanto che si era pronti all’appoggio al piano golpista del principe BORGHESE.
E con altro sfondo, relativo al collegamento con il mondo della massoneria riservata, in cui il ruolo di ROMEO Paolo e di DE STEFANO Giorgio emerge, con tutta evidenza, dalle parole dei collaboratori.
Sono costoro, almeno in quella fase, diade che funge non solo da indispensabile guida strategica in fase di guerra di mafia ma anche da momento di collegamento con il mondo riservato, occulto, della massoneria, di cui pure vengono considerati partecipi, e con l’eversione di destra.
Ebbene, basta tornare alle sentenze emesse nei relativi giudizi per cogliere come questi collegamenti si colgano a piene mani.
È sufficiente, infatti, leggere la sentenza di secondo grado a carico del ROMEO per comprendere come questo tipo di legami siano stati, a ben vedere, pacificamente dimostrati.
E(si vedrà, ancora, commentando le emergenze indiziarie sul ruolo del ROMEO nello specifico contesto investigativo) il tema della relazione con FREDA, del favoreggiamento del predetto e del collegamento con l’estrema destra sarà trattato direttamente dall’indagato in conversazioni interessantissime, anche recenti, che segnano la dimensione plurisoggettiva di quei legami.
Un sostrato nel quale si è radicata la figura degli odierni due indagati nel seguito della loro storia personale e delinquenziale, che li vedrà, è inutile nascondersi dietro frasi di rito,
- al centro della vita oscura di questa città e di tutte le scelte che hanno presieduto finanche alle sue evoluzioni nella guida politico – amministrativa,
- al centro delle dinamiche della ‘ndrangheta e delle scelte strategiche della stessa.
Il tutto in maniera riservata».
ROTTURA DEL “PATTI”, L'OMICIDIO DEL GIUDICE SCOPELLITI, “IL SUPREMO” E MATACENA
Scrive il GIP: «L’omicidio del Sostituto Procuratore Generale presso la Suprema Corte di Cassazione, dr. Antonino SCOPELLITI, avvenuto a Piale di Villa San Giovanni il 9 agosto 1991, pertanto, avrebbe segnato una sorta di punto di rottura del sistema voluto e creato dai DE STEFANO, essendosi tradotto nella violazione dei “patti”», ed aggiunge: «Ciò collima con le dichiarazioni del collaboratore di giustizia Giuseppe LOMBARDO, il quale, il 24 marzo 1997, riferiva di essere a «conoscenza dell'esistenza di una "cupola" che governa tutti gli interessi illeciti nella città e che è costituita da esponenti della mafia, della politica, della massoneria e dell'imprenditoria» nata «dopo la pacificazione, esattamente tra il 92 ed 93», con CONDELLO Pasquale cl. 1950 in veste di “capo assoluto”».
Quindi procede il GIP:
«LOMBARDO precisava che di tale cupola mafiosa nuovo «referente politico è l'onorevole Amedeo MATACENA il quale rappresenta il mondo politico all'interno della cupola mafiosa», mentre «per quanto riguarda il settore dell'imprenditoria, nella cupola è presente Bastiano NUCERA, che so essere massone, unitamente a cognato di cui non ricordo il nome ed ora che mi viene fatto dalla S.V. posso confermare essere GUARNACCIA. So che questa persona ha subito un attentato. A NUCERA ed a GUARNACCIA sono strettamente collegati due fratelli, uno dei quali imprenditore e l'altro avvocato.
Quest'ultimo ha lo studio di fronte la piazza Sant'Agostino. Al momento non mi sovviene il cognome di queste persone che comunque ricordo essere state arrestate alcuni anni fa. Alla S.V. che mi fa il nome COZZUPOLI rispondo che effettivamente è questo il nome che non ricordavo. Ricordo che con uno di questi due fratelli ho trascorso un breve periodo di detenzione nel carcere di Reggio Calabria166. Durante la guerra di mafia ricevetti dall'imprenditore COZZUPOLI la somma di lire 50.000.000 che venne utilizzata per l'acquisto di armi, per come mi venne detto da Pasquale CONDELLO al quale consegnai l'intero importo. La stessa sera mi portai presso il silos di Bastiano NUCERA che mi consegnò anch'egli la somma di lire 50.000.000. Ricordo che questi sopraggiunse con jeeppone Mercedes blindato di colore blu. Lo stesso, peraltro, era in precedenza di colore bianco e perfettamente uguale a quello di Mico Libri, pure questo di colore bianco, e che per tale ragione il NUCERA, nel timore di scambiato per il LIBRI, aveva fatto riverniciare in blu». «Il settore "giustizia" in commissione è rappresentato dall'avvocato Giuseppe FOTI, grande amico di Pasquale CONDELLO. Questo rapporto mi consta personalmente ed a tal proposito posso citare un episodio: subito dopo l'operazione "Santa Barbara", quando ancora non ero stato arrestato, su incarico di Pasquale CONDELLO, andai a prendere con la Fiat 127 bianca di PaoloIANNO' l'avvocato FOTI, che prelevai dal suo studio ed accompagnai a Gallico in un casolare, da Pasquale CONDELLO, che si trovava in compagnia di Domenico CHIRICO e di CarmeloPALERMO. Nel corso di quell'incontro, Pasquale CONDELLO chiese consigli al legale su come bisognava comportarsi per difendersi dalle accuse del processo "Santa Barbara" che si basavano essenzialmente su intercettazioni radio ed, anzi, ricordo che il CONDELLO aveva pensato di ammettere, in parte, i dialoghi, sminuendone i contenuti anche perchè, con riferimento alla sua posizione, le conversazioni che gi vennero intercettate si riferivano a colloqui con i congiunti. Il FOTI gli sconsigliò quella strategia ritenendo che per il momento era il caso di aspettare il corso della Giustizia. Dopo l'incontro riaccompagnai FOTI al suo studio e ricordo che il giorno successivo, quando rividi Pasquale CONDELLO, gli chiesi spiegazione sui motivi che lo avevano indotto a confidarsi così apertamente con il FOTI. Il CONDELLO mi rispose dicendomi che del FOTI ci si poteva fidare ciecamente anche perchè era un massone, termine che, all'epoca non mi diceva assolutamente nulla».
Procede quindi il GIP: «Provando a confrontare i dati dichiarativi sopra indicati, fra le due versioni esiste ampia compatibilità logica.
LOMBARDO colloca negli anni 1992 - 1993 la nascita della «cupola», ponendola in relazione alla «pacificazione».
CONDELLO Pasquale già nell’anno ’83 aveva ricevuto da Paolo DE STEFANO l’investitura quale vertice assoluto e questi era deceduto nell’ottobre del 1985 in un attentato che, posto in relazione a quello subito due giorni prima da IMERTI Antonino cl. 1946, aveva scatenato la seconda guerra di ‘ndrangheta, ininterrottamente protrattasi fino, appunto, al 1991.
Se, stando al narrato di FIUME, i precedenti patti erano «decaduti» con la morte del magistrato Antonino SCOPELLITI, avvenuta, si ripete, il 9/8/1991, ovvio è che siano proprio gli anni indicati dal LOMBARDO come quelli in cui si doveva innovare la pattuizione, con statuizioni che, a questo punto, lungo una linea di continuità con il passato, dovevano riguardare non solo il mondo mafioso ma anche quello, apparentemente non tale, ad esso vicino, contiguo, anzi intimamente connesso.
Come per il passato, quindi, gli accordi coinvolgono anche ambiti non prettamente criminali, tanto che LAURO fa riferimento anche ad appartenenti all’ordine giudiziario che divennero quasi «garanti della pax mafiosa» e che, dunque, andarono ad unirsi a quelli che DE STEFANO Paolo, in epoca databile intorno al 1977, qualificava come «intoccabili» e che LIBRI Domenico definiva, invece, «nobili», parimenti indicandoli come intoccabili.
E, infatti, secondo le dichiarazioni di FIUME, le «regole» a presidio della pax mafiosa furono imposte da Mico LIBRI, che vietò «di attentare contro qualcuno delle forze dell’ordine o qualche Giudice», ristabilendo evidentemente parte degli «accordi» antecedenti all’omicidio SCOPELLITI.
Filippo BARRECA, il 20 gennaio 1993, aveva precisato il ruolo della “cupola” nei termini che seguono:
“Come si addivenne materialmente alla conclusione della pace ho già detto in precedenti verbali; quello che in questa sede intendo evidenziare è invece la circostanza che proprio dall'esperienza dei contatti e dei collegamenti finalizzati a mettere la pace fra le cosche maturò l'idea di una cupola permanente, che fosse garante per tutte le famiglie della provincia reggina e potesse dirimere prima del loro insorgere i contrasti fra le cosche.
L'organigramma della cupola è il seguente, secondo quanto appreso nel nostro ambiente dal momento che tutti i clan mafiosi furono informati dell' esistenza di questa nuova struttura che, come suo primo atto, ha delimitato territorialmente tutti i locali della provincia: Antonio NIRTA, patriarca ottuoagenario originario di S. Luca; PELLE Antonio inteso "Gambazza"; ALVARO Domenico di Sinopoli; PIROMALLI Giuseppe di Gioia Tauro, il quale in quel periodo era detenuto e venne avvisato in carcere; MAMMOLITI Antonio di Castellace, fratello di Saro; ROMEO Sebastiano inteso "U STACCU";MORABITO Giuseppe, inteso "PEPPE TIRA DRITTU" di Africo; URSINO Luigi di Gioiosa Ionica; BELLOCCO Umberto di Rosarno; ARANITI Santo da Sambatello; PAPALIA Rocco da Platì ma residente a Milano; PESCE Giuseppe da Rosarno, poi deceduto ma vivo, se non ricordo male, all' epoca della formazione della cupola; SERRAINO Paolo, di Cardeto, fratello di don Ciccio SERRAINO; CATALDO Giuseppe di Locri; MAZZAFERRO Francesco di Gioiosa Ionica; IMERTI Antonino da Fiumara di Muro, quest' ultimo sostanzialmente collegato con Pasquale CONDELLO.
Durante la comune detenzione Alfonso MOLINETTI, parlandomi degli organigrammi che si andavano a strutturare mi disse che l'avvocato Giorgio DE STEFANO, quando si fossero sistemate le cose, sarebbe diventato il capo assoluto in tutta la provincia di Reggio Calabria, anche in funzione della futura eliminazione dei MAMMOLITI e dei PIROMALLI che venivano ritenuti gli artefici sotterranei delle guerre di mafia a Reggio Calabria. D'altra parte il DE STEFANO Giorgio, che vantava amicizie politiche ad altissimo livello, era molto collegato con Peppe "Tira Drittu" e con i Papalia.
Aggiungo ancora che l'intervento dei siciliani, oltre gli interessi iniziali di cui ho parlato, fu ulteriormente motivato, strada facendo, dalla sopravvenuta loro esigenza di eliminare il giudice SCOPELLITI per motivi connessi al Maxi processo di Palermo.
Tutte le attività criminose di qual si voglia natura, devono passare al vaglio della cupola che ne autorizza l' esecuzione o la vieta.
Posso esemplificare una mia diretta esperienza in merito al potere decisionale ed al livello di responsabilità che gli esponenti di maggiore spicco della 'ndrangheta avevano già prima che venisse costituita la cupola: ed infatti, subito dopo l'omicidio dell'onorevole LIGATO, vennero a trovarmi a casa mia numerosi personaggio di spicco del "crimine della Madonna della Montagna": Antonio PELLE (Gambazza), esponenti del clan PESCE, esponenti del clan di ROMEO Sebastiano "U Staccu", tramite Domenico LIBRI ed i miei cugini, ed altri. Tutti volevano "prendere conto" da me su come fossero realmente andati i fatti. Stessa situazione si verificò in tutte le carceri in cui io successivamente fui detenuto. In particolare nel carcere di Palmi divideva la cella con me Turi PILLERA, esponente del clan Nitto SANTAPAOLA, il quale mi tormentava per sapere chi fosse stato ad uccidere LIGATO: si trattava, in questo caso, di un'ulteriore riprova del collegamento esistente fra i DE STEFANIANI e Nitto SANTAPAOLA. Per altro tutti i discorsi sulla pace e sulla cupola erano di dominio pubblico nel carcere di Palmi fra gli esponenti di spicco dei vari clan, ivi detenuti.
Aggiungo che le quotazioni dell'avvocato Paolo ROMEO nel periodo della mia detenzione a Palmi, erano in vertiginosa crescita poichè si sapeva che era stato proprio l'avvocato ROMEO uno dei promotori delle trattative di pace. L'avvocato ROMEO era collegato con l'avvocato Giorgio DE STEFANO ed entrambi erano collegati con settori della politica siciliana e nazionale. Devo precisare che l'intervento dell'avvocato ROMEO fu anche determinato della sua consapevolezza di essere uno dei prossimi bersagli nella allora imperversante guerra di mafia. Mi risulta infatti che si erano tenute riunioni per assassinarlo da parte del gruppo avverso dei DE STEFANIANI.
Ritornando alle competenze ed alle attribuzioni della cupola posso affermare che l'omicidio del giudice SCOPELLITI è stato certamente deciso o, quantomeno avallato dalla cupola di concerto con la mafia siciliana.......omississ........
Ogni anno presso il Santuario di Polsi ed in occasione della festa della Madonna di Polsi, si riunisce presso il Santuario il così detto "Crimine"; esso è composto dai rappresentanti di tutti i "locali" della provincia di Reggio Calabria. Devo tuttavia puntualizzare che esistono dei "locali" anche a Milano, Torino e nella stessa Roma, i cui rappresentanti vengono regolarmente invitati. nella riunione della Madonna della Montagna si discutono tutte le questioni concernenti le attività criminose, le eventuali controversie insorte fra i vari locali ed ognia altra questione ivi comprese le punizioni da infliggere a degli adepti che si siano macchiati di varie colpe. La riunione annuale di Polsi, per la sua antica e tradizionale ricorrenza nel costume della 'ndrangheta, riveste anche un significato di tipo religioso rituale. essa viene anche regolata, come tutti i cerimoniali dello stesso tipo, da principi rigidi che si esprimono in particolari meccanismi la cui utilizzazione è necessaria per conseguire i risultati voluti. Per esempio, non si può decidere di "spogliare un capo società" se alla decisione non partecipano almeno quattro "locali"; solo in tal modo infatti sono appagate le esigenze formali connesse ad una iniziativa tanto importante. Il capo locale (che è più elevato in grado del capo società) può delegare un suo subalterno e quindi anche il capo società, a rappresentarlo alla riunione di Polsi.
Un ruolo di primo piano, nell'ambito del crimine della Madonna di Polsi., viene esercitato dai monaci del convento il cui capo è attualmente Don Trimboli, di Platì. In precedenza il capo del convento è stata persona diversa così come gli altri che lo hanno preceduto; tuttavia, malgrado gli avvicendamenti, la logica di gestione del convento è stata sempre la medesima: quella di copertura e di complicità con le cosche mafiose che proprio il Santuario di Polsi hanno prediletto come sede del loro incontro annuale. Voglio dire che la scelta di Polsi non è mai stata casuale nè legata a motivi geografici; essa invece ha rispecciato un preciso intreccio di interessi tra i monaci del convento e la malavita organizzata. L' omicidio del vice prete GIOVINAZZO, che prestava la sua opera presso il convento, è emblematica di tutta una sottostante situazione. Altro riferimento emblematico è quello relativo all' opera di mediazione svolta dai preti del convento in occasione del sequestro di Cesare CASELLA; tale mediazione mi risulta per esperienza diretta e personale essendomi trovato presente in una riunione tra persone che non intendo nominare. Da quella riunione emerse che chi aveva fornito le indicazioni utili per la liberazione di CASELLA era stato Don STRANGIO, arciprete di San Luca e parente dell'avvocato ROMEO, figlio quest'ultimo di ROMEO "U Staccu". Ultima indicazione esplicativa di quanto poco sopra asserito è rappresentata dal putiferio che si verificò allor quando negli anni 60 Domenico TRIPODO di San Giovanni di Sambatello, personaggio mafioso allora in auge, decise di trasferire il luogo di riunione del crimine da Polsi a San Giovanni di Sambatello. I Sanlucoti ed i Platioti insorsero anche in rappresentanza dei preti del Santuario, impedendo che lo spostamento venisse attuato. Dico meglio si tenne una prima riunione nel territorio di Don Mico TRIPODO e precisamente al ponte di Calanna; tale riunione caratterizzata da un' irruzione, seppure tardiva, delle Forze di Polizia, fu l' unico episodio di tale genere verificatosi in luogo diverso da Polsi. Dopo di che si tornò alla riunione annuale presso il Santuario.
Il capo crimine, che è una figura più che altro simbolica viene rieletta ogni anno in occasione della riunione di Polsi.
La cupola che ha cominciato ad esistere a partire dal gennaio 1991, ha caratteristiche e funzioni diverse rispetto al "crimine" della Madonna della Montagna; essa rappresenta infatti una struttura più duratura e stabile, con poteri di interferenza su ciascuna cosca della provincia reggina, proprio onde evitare il ripetersi delle situazioni come la guerra di mafia che è nata dall' auto bomba di Villa San Giovanni ha finito con il coinvolgere gran parte della provincia reggina......omississ......”.
Si comprende, pertanto, la rilevanza essenziale di figure quali quella di Paolo ROMEO e di Giorgio DE STEFANO, accomunate dalle rilevanti amicizie e collegamenti con ambienti politici siciliani e nazionali.
Evidente, poi, è come le dichiarazioni di BARRECA Filippo in merito alla Cupola ne evidenzino non solo caratteristiche e funzioni diverse rispetto al crimine della Madonna della Montagna, ma, soprattutto, confrontandole diverse dichiarazioni sul punto e leggendo quanto emerge in ordine alla composizione delle stesse organizzazioni «Santa» e «Cupola»,è agevole giungere alla conclusione che quest’ultima sia una sorta di versione aggiornata della prima e la sua immediata prosecuzione.
E ciò è figlio, in qualche modo, si è detto, anche del ruolo di primazia frattanto assegnato al Supremo CONDELLO Pasquale cl. 1950.
A conferma di un tale ruolo del CONDELLO Pasquale, nell’interrogatorio reso da FIUME Antonino il 6 dicembre 2011, nell’ambito del procedimento penale 222/11 RGNR DDA, emerge che «l’unica volta che c’è stata una riunione della ‘ndrangheta è stato quando molti voti sono stati spostati a sinistra nel periodo di FALCOMATÀ» e vi fu «l’unione vera e propria», tanto che, in una circostanza, «Giuseppe DE STEFANO» gli chiese «chi è il sindaco a Reggio» e, a FIUME, che rispose FALCOMATÀ, il DE STEFANO ribatteva che «non si chiama FALCOMATÀ» ma «Pasquale CONDELLO» perché «sono la stessa cosa».Il collaboratore aggiungeva che «c’è stato un periodo che» CONDELLO Pasquale «aveva il potere di decidere per tutti»e, pur ignorandone la ragione, «fatto sta che è accaduto».Tale convergenza aveva riguardato «la prima volta che è stato eletto», quando «la guerra di mafia era finita» e, contrariamente a quanto accadeva normalmente, che «ognuno aveva ... votava quello che voleva», allora, «c’era stata questa... questo suo volere», di CONDELLO Pasquale, «che è stato accettato da tutti».»
(fine prima parte)