Commentava, Nerli, l’estemporanea e stravagante uscita di Claudio Scajola,
il ministro delle Attività produttive, a margine della “48 ore del mare”.
Richiesto di un parere sull’inchiesta della magistratura, che ha bloccato il
pagamento di 1,7 milioni di euro alla Culmv di Paride Batini ritenendolo una
truffa, Scajola ha dichiarato che «i soldi devono essere pagati e poi
recuperati se eventualmente dati non secondo le norme e le regole previste».
Più o meno gli stessi concetti ha espresso Claudio Burlando, il presidente
della Regione Liguria, mentre davanti a Palazzo Ducale, sede del convegno che
ha portato a Genova tutto il mondo dello shipping italiano, era distribuito un
volantino in cui Cgil-Cisl-Uil minacciano che «le agitazioni [sulle banchine] proseguiranno
sinché l’Autorità portuale non erogherà l’importo dovuto sulla base di quanto a
suo tempo deliberato».
Si può capire, anche se non giustificare, che il sindacato ricalchi la
logica abituale del ricatto e dell’intimidazione per non perdere consenso e
contatto con la Compagnia unica. Non stupisce vedere Burlando come sempre
impegnato nell’arzigogolato tentativo di tenere i piedi in troppe staffe: da
una parte non scaricare platealmente il suo ex assessore ai Trasporti,
l’attuale presidente dell’Autorità portuale Luigi Merlo; dall’altra rimarcare
il suo antico sodalizio con il console Batini. È francamente eccessivo,
tuttavia, assistere all’inusitato spettacolo di un ministro della Repubblica
che istiga un rappresentante delle Istituzioni a violare le leggi dello Stato.
Si può solo sperare che Scajola non sapesse di che cosa stava parlando.
Val la pena di ricordarglielo. I pm della procura di Genova hanno ipotizzato
il reato di truffa per il pagamento di 1,7 milioni di euro alla Culmv deciso
dal precedente presidente dell’Autorità portuale Giovanni Novi (accusato, per
altre vicende, anche di turbativa d’asta, falso, concussione, istigazione alla
concussione e abuso d’ufficio). Coimputati, oltre a Batini, sono il suo vice
Paolo Marchelli, l’allora “port manager” Filippo Schiaffino, l’avvocato dello
Stato Giuseppe Novaresi (che avrebbe redatto un parere di comodo e una falsa
relazione su richiesta di Novi).
Il giudice del riesame ha ritenuto congrua la ricostruzione dei pm, tanto da
far sequestrare la prima tranche di 800mila euro, versata il 30 giugno 2007. I
magistrati inquirenti non hanno trovato però nulla nelle casse della Compagnia
unica, tanto che è stato disposto il sequestro di beni personali di Novi per
l’importo equivalente. Per evitarlo, l’ex presidente ha emesso una
fidejussione.
La seconda tranche sarebbe dovuta essere pagata entro il 30 giugno scorso.
Merlo non l’ha fatto per due ragioni: la prima, evitare un possibile danno
all’Ente e quindi alle casse pubbliche; la seconda, per non incorrere almeno
nell’accusa di favoreggiamento e forse in quelle di concorso in truffa e abuso
d’ufficio. Se l’ipotesi accusatoria non fosse solida, non sarebbe stato deciso
il sequestro dei beni personali di Novi.
È possibile che Scajola si sia fatto guidare solo dalla stima che nutre (e
ha apertamente manifestato in più occasioni) per l’ex presidente dell’Autorità
portuale. Ma questo è un conto, tutto un altro avvicinarsi pericolosamente a
quell’area grigia in cui si potrebbe addirittura configurare l’istigazione a
delinquere. Un’intemerata del genere (con Burlando in solerte appoggio) è un
preoccupante sintomo dello stato confusionale in cui versa la politica
italiana, che vacilla perfino sulla salvaguardia della legalità. Non è chiaro,
infatti, in base a quale principio l’Autorità portuale dovrebbe comunque pagare
la seconda tranche – «e poi si vedrà». Chi paga? Merlo e il segretario generale
Titta d’Aste, per poi finire anche loro nel registro degli indagati in un porto
che semmai ha un disperato bisogno di legalità (e normalità)? E che cosa si
vedrà, dopo, se non le ennesime macerie istituzionali?
Lanfranco Vaccari
Direttore de Il Secolo XIX